a cura di Alessio Arena
Nell’ottobre 2009, a due mesi dalla conclusione positiva della lotta degli operai della INNSE di Lambrate, storica fabbrica milanese derivata dallo smembramento di Innocenti che rischiava la chiusura, vittima della speculazione, realizzai per il giornale studentesco A piena voce questa intervista a Vincenzo Acerenza, uno dei protagonisti di quella lotta e tra i quattro operai che, insieme a un delegato della FIOM-CGIL, nell’agosto del 2009 si asserragliarono su una gru dello stabilimento per difendere i macchinari dallo smontaggio ordinato dal padrone-rottamatore.
Quella lotta l’avevo seguita senza soste, per conto dell’Associazione Démos – Studenti Comunisti dell’Università di Milano, per quindici mesi, dalla fase d’autogestione iniziata nel maggio 2008 a quella, lunghissima, del presidio permanente, fino all’epilogo vittorioso: la fabbrica avrebbe ripreso l’attività sotto un nuovo acquirente. Una soluzione politica, strappata da una compagine operaia non disponibile a sacrificare nessuno, solidale e compatta fino alla fine, capace di trascinarsi dietro anche impiegati e tecnici e tenere tutti uniti, protagonisti di una battaglia nel corso della quale si era compattato loro intorno un ampio movimento di solidarietà.
La vicenda dei minatori sardi del Sulcis, barricati in una galleria a 400 metri di profondità nelle viscere della terra per gli stessi motivi, mi pare restituisca nuova attualità alle parole di Acerenza, che dunque ripropongo come introduzione all’intento di www.frontepopolare.it di raccontare la lotta di classe come concretamente si organizza e si presenta nell’attualità del declino economico del nostro paese.
La risposta alla crisi che si delinea in queste parole è chiara, come chiaro risulta quale sia l’unico soggetto sociale in grado di proporsi come avanguardia nella lotta per quella nuova società che appare oggi come una necessità non più rinviabile.
***
D: Dunque la INNSE ha riaperto a partire dal 12 ottobre e siete tornati al lavoro. Una bella vittoria?
Il 15 ottobre siamo stati tutti riassunti da Camozzi, il nuovo padrone. Un primo gruppo di operai ha ripreso la produzione da subito, gli altri in cassa integrazione e riprenderanno gradualmente secondo un piano. Una vittoria? Da un lato una sfolgorante vittoria, dall’altro un risultato amaro.
D: Perché un risultato amaro?
Il lavoro è stato mitizzato, si confonde il lavoro come attività genericamente umana con il lavoro in questa società ed in particolare il lavoro operaio. Noi torneremo ad alzarci all’alba, sui turni, al caldo ed al freddo, attaccati ad una macchina, stando ben attenti a portare a casa la pelle, sotto il controllo di un capo e per soli, se ci si arriva, 1300 euro al mese.
D: Però parli anche di sfolgorante vittoria.
La scelta del padrone Genta era definitiva: la fabbrica, la INNSE, doveva essere chiusa. I suoi interessi e quelli dell’immobiliare, proprietaria del terreno, passavano attraverso lo smantellamento dell’officina. Fummo posti a maggio del 2008 di fronte alla scelta: o trattare la chiusura con i soliti ammortizzatori sociali oppure tentare in tutti i modi di non farla chiudere. Decidemmo per questa seconda opzione. Oltretutto Genta aveva cominciato male buttandoci fuori dall’officina con un telegramma e da un giorno all’altro. La prima risposta fu quella di forzare subito la mano, entrammo in fabbrica e riprendemmo la produzione. Avevamo ancora delle commesse da finire.
D: Un’autogestione?
Anche qui non vogliamo lanciare segnali distorti come quello della possibilità, in un sistema di mercato, di una gestione operaia delle fabbriche. Si finirebbe comunque a fare i padroni di noi stessi, costringendoci reciprocamente a fare fronte alle necessità del mercato, che ha la sua ragione di esistenza nella produzione per il profitto. Noi abbiamo voluto dimostrare che la fabbrica funzionava anche contro la volontà del padrone che parlava di mancanza di lavoro, macchinario obsoleto. Alla sua volontà di chiudere abbiamo opposto la realtà di una fabbrica in funzione e non ci sembra poco.
D: Conosco la storia. A settembre 2008 la polizia vi mise fuori dallo stabilimento e da lì cominciaste il presidio. Cosa vi spinse a questa decisione?
Il fatto che non è stato rilevato è che noi fummo licenziati il 22 agosto 2008, al termine dei 75 giorni della procedura di mobilità. Il passaggio più critico di tutte le lotte contro i licenziamenti è la fine della procedura, ci si trova in Regione e il ricatto è terribile, tutti spingono per trovare soluzioni con i soliti ammortizzatori e fare il mancato accordo vuol dire essere in mobilità senza incentivi. Noi mandammo all’incontro solo la segretaria provinciale della FIOM che firmò il mancato accordo. Il ricatto più terribile venne superato di slancio, ci avrebbero licenziato, messi in mobilità ma la fabbrica non avrebbero potuto smontarla col nostro consenso.
D: Il controllo della fabbrica per voi era essenziale?
Il perno centrale della lotta. Discese da una strana, nuova concezione. Il macchinario è veramente del padrone? Formalmente sicuramente sì, ma lo è sostanzialmente? Gli operai potrebbero pensare che in qualche modo è stato ammortizzato col loro lavoro? Se lo pensano e impediscono al padrone di portarlo via, di smontarlo commettono forse un sacrilegio? L’avvocato del padrone salta su tutte le furie, corre dal magistrato, rivendica il diritto alla proprietà privata che 49 operai sbandati di via Rubattino hanno il coraggio di mettere in discussione. Per 17 mesi giorno e notte la fabbrica è tenuta sotto sorveglianza, c’è da riempire un libro dei tentativi di Genta per entrare, iniziare a smontare le macchine, prendersi la “sua” roba. Ogni volta scontri con le forze dell’ordine, il 10 febbraio manganellate, la portineria di via Rubattino ha visto schierati più polizia e carabinieri in quest’ultimo anno e mezzo di quanti ne abbia visti dalla fine della guerra ad oggi
D: Ci puoi in poche righe raccontare il ruolo delle istituzioni in questa vicenda?
Il 2 agosto siamo completamente soli, Genta sta smontando il macchinario, la fabbrica è circondata da circa trecento poliziotti in tenuta antisommossa, la Magistratura milanese ha dato il via allo smantellamento, Prefetto e Questura avevano deciso il giorno e l’ora, questa è la verità. Per più di un anno abbiamo girato tutti i tavoli istituzionali, la Provincia e la Regione, il Ministero, quasi quaranta incontri e tutti inconcludenti. Il piccolo padrone di periferia dettava legge, non voleva vendere a nessuno la fabbrica, faceva scappare i possibili acquirenti per i prezzi e le condizioni che buttava sul tavolo, lo fiancheggiava la AEDES (l’immobiliare n.d.r.) che voleva libera l’area. Ebbene le istituzioni si sono sempre limitate a registrare questi fatti, nessuna scelta di modificarli, di imporre altre scelte, la volontà del padrone, anche il più sputtanato, detta legge. La politica del lavoro? Una chimera, erano disposti tutti a darci qualche briciola a condizione che mollavamo la fabbrica, la politica del lavoro si manifestava come politica dell’assistenza ai poveri.
D: La decisione di andare sulla gru è stata un atto disperato?
Nemmeno per sogno, avevamo assoluto bisogno di fermare lo smontaggio delle macchine, ogni ora che passava era un passo verso la sconfitta definitiva. Decidiamo, dopo due giorni di inutili tentativi di fermare Genta per via istituzionale, di entrare in fabbrica. Aggiriamo il blocco delle forze dell’ordine, passando per vie che conoscevamo solo noi e ci ritroviamo al centro dell’officina. Davanti ai mercenari che stavano smontando ed alla Digos che non ha capito subito che cosa stesse succedendo abbiamo puntato dritto alla scala della gru. In pochi minuti eravamo su gridando come dei matti contro Genta, contro lo smontaggio delle macchine. In questo casino indiavolato i dirigenti della polizia hanno pensato bene di sospendere il lavoro di smontaggio, allontanare Genta dall’officina. Il primo risultato era raggiunto, la fabbrica era salva.
Una lungimirante visione per garantire il lavoro alle future generazioni in una fabbrica parte del patrimonio storico della città.
Questa è solidarietà nel senso più nobile.