Pubblichiamo a seguire un brano del libro “Où vont les Italiens?” (“Dove vanno gli italiani?”), pubblicato dal nostro redattore Alessio Arena presso la casa editrice francese Editions Delga e presentato al pubblico la settimana scorsa, in occasione della festa del quotidiano comunista “l’Humanité”, a Parigi.
Il 2011, anno intenso e drammatico, ha offerto in sequenza alcuni spunti utili per introdurre l’argomento che ci siamo proposti di trattare. Prima il carattere assunto dalle celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia, in rapida successione la partecipazione del paese all’aggressione militare contro la Libia – maturata in violazione di un recentissimo trattato di amicizia e cooperazione stipulato dopo intense trattative condotte dal governo di centrosinistra prima, per poi essere concluse dall’esecutivo di centrodestra uscito dalle elezioni del 2008 – , infine le caratteristiche assunte dalla crisi politica da cui è nato il Governo Monti, hanno rivelato con inedita chiarezza le connessioni interne al blocco storico, la concezione del processo storico nazionale portata avanti dai settori dominanti della società e, in conseguenza, dai vertici politici e, infine, le priorità e la prassi individuate da questi ultimi per gestire l’attuale situazione.
Ma andiamo con ordine. Come noto, l’Italia ha celebrato nel mese di marzo i centocinquant’anni dalla proclamazione del Regno unitario che, sotto la bandiera dei Savoia, metteva fine nel 1861 alla lunga frammentazione politica cominciata con la calata dei longobardi nella penisola nel VI secolo. Proprio quella celebrazione, per come concepita per volontà dello stesso Presidente della Repubblica, ha costituito un vero e proprio manifesto politico del potere. La celebrazione è stata scandita da atti di forte connotato simbolico, quali la deposizione di una corona di fiori, da parte di Giorgio Napolitano e alla presenza degli eredi di casa Savoia, sulla tomba di Vittorio Emanuele II. Un atto inedito dalla proclamazione della Repubblica, accompagnato da prese di posizione e discorsi ufficiali, ma anche da un forte apparato di propaganda ideologica e mediatica, avente come unico obiettivo la fissazione dell’atto fondativo dell’Italia contemporanea, appunto, al 1861.
Viene così affermata ai massimi livelli la continuità della Storia nazionale, un nesso di consequenzialità, un rapporto di filiazione con lo Stato unitario fondato sulla base di ben precise gerarchie di classe e territoriali da quei Savoia di cui Giuseppe Garibaldi aveva scritto, parlando della caduta di Napoli borbonica all’arrivo dei Mille: «Era bello veder i regi settentrionali usar ogni specie di fallace ingerenza, corrompendo l’esercito borbonico, la marina, la corte, servendosi di tutti i mezzi più subdoli, più schifosi, per rovesciare o meglio dare il calcio dell’asino a quel povero diavolo di Francesco che finalmente era un re come gli altri, con meno delitti, senza dubbio per non aver avuto il tempo di commetterne, essendo giovane ancora e rovesciarlo e sostituirvisi e far peggio!»[1]. L’Italia di oggi, la sua Storia, le si vuole dunque nate dal Regno savoiardo in cui solo i ricchi potevano votare, in cui l’arbitrio classista della nuova borghesia industriale si coniugava in un’alleanza organica con le vecchie caste latifondiste e con la malavita meridionali a formare il blocco sociale dominante nel nuovo Stato. L’Italia, anche, del rapporto gerarchico Nord-Sud, della subordinazione in termini coloniali del Mezzogiorno con le note conseguenze in termini di duro impatto sociale. Un’Italia la cui Storia è un unicum di cui fa parte anche la ripugnante stagione coloniale, anche – e desideriamo sottolineare questo passaggio per la sua estrema, definitiva rilevanza – il fascismo.
Non a caso questo discorso viene portato avanti da Giorgio Napolitano – ne accennavamo poco sopra – come non a caso l’equiparazione tra fascisti e partigiani in nome della “riconciliazione nazionale” la cui necessità viene riferita alla concezione della Resistenza come “guerra civile”, venne solennemente affermata da Luciano Violante in occasione del suo insediamento alla presidenza della Camera dei Deputati nel 1996. Entrambi esponenti del dissolto Partito Comunista Italiano, entrambi fautori del suo scioglimento in funzione dell’integrazione nei ranghi dei leali gestori degli affari del capitalismo nazionale.
Non a caso, perché proprio l’essere stati educati alla scuola del PCI, l’avere interiorizzato la sua concezione della Storia, determina la cosciente volontà, la ragione ideologica delle scelte assunte. Viene in definitiva negato un fatto, fondamentale nella lotta per aprire vie nuove all’Italia: che l’antifascismo sia stato, che debba essere considerato il momento decisivo di rottura della Storia nazionale. Che il 1945 sia cioè stato l’atto di cesura proprio con l’Italia del 1861 in termini di riconcezione democratica dei rapporti sociali prima ancora che di quelli politici. È questa la condizione necessaria – ci soffermeremo sul punto più diffusamente – per aprire la via al definitivo superamento della Costituzione repubblicana del 1948, già vanificata dalla restaurazione scelbiana a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta e ispiratrice della politica di avanzata democratica al socialismo portata avanti dal PCI sulla spinta della riflessione di Antonio Gramsci e di Eugenio Curiel, del pensiero e dell’azione di dirigente politico di Palmiro Togliatti, dell’elaborazione collettiva e della prassi di lotta politica di crescenti masse di lavoratori lungo tutto il corso della parabola repubblicana.
L’antifascismo, dunque, come elemento di rottura della Storia nazionale. Ma in che termini? Bisogna infatti intendere l’antifascismo come processo di emersione della classe operaia e delle sue organizzazioni come classe nazionale, cioè come portatrice di valori e priorità di portata generale, contrapposta, nella fase dell’imperialismo, a una borghesia liberale capitalistica che ormai aveva rotto ogni legame con la nazione, fino a diventare antinazionale portando il paese alla rovina col fascismo e la guerra, ma anche come ritorno al protagonismo della borghesia democratica, attiva nel Risorgimento col movimento carbonaro, con i Garibaldi, i Pisacane, i Cattaneo e sconfitta proprio con l’atto di fondazione dello Stato unitario. Quella borghesia democratica che aveva tentato – strutturalmente non in grado di riuscirvi – l’organizzazione delle masse nella lotta per l’indipendenza e l’unità e che resta comunque attiva nel movimento democratico nazionale nel mondo della cultura, delle arti, della politica in particolare. Quella borghesia che aveva espresso in Carlo Pisacane, trucidato nella lotta per l’unità e l’indipendenza italiana nel 1857, uno dei primi e più netti assertori del socialismo nascente: «In una società ove la sola fame costringe il maggior numero al lavoro, la libertà non esiste, la virtù è impossibile, il misfatto è inevitabile: la fame e l’ignoranza, sua conseguenza immediata, rendono la plebe sostegno di quelle medesime istituzioni, di que’ pregiudizî da cui emerge la loro miseria; rivolgono la spada del cittadino contro i cittadini medesimi a difesa d’una tirannide che opprime tutti. La fame imbriglia il pensiero, aguzza il pugnale dell’assassino, prostituisce la donna. La società intera viene abbandonata al governo di coloro che posseggono, ed il suo utile, la sua volontà, sarà sempre quella di cotesti pochi, i quali ammolliti dalle ricchezze, che temono di perdere, sacrificheranno sempre l’onore, la dignità, l’utile universale ai loro ozî beati, e l’ignoranza e la miseria interdicendo al maggior numero la libera espressione della loro volontà, distrugge affatto la nazionalità, espressa dalla volontà collettiva senza eccezione e senza prevalenza di classi. Conchiudiamo: la libertà senza l’uguaglianza non esiste, e questa e quella sono condizioni indispensabili della nazionalità, che a sua volta le contiene, come il sole la luce e il calorico»[2].
Né stupisce dunque trovare esponenti di queste correnti d’azione e di pensiero al fianco dei redattori dell’Ordine Nuovo (si pensi a quel Piero Gobetti animatore di Rivoluzione liberale e collaboratore del giornale di Gramsci, assassinato dal fascismo nella fase della costruzione del regime), attivi coi fratelli Rosselli nella lotta antifranchista in Spagna e poi tra in principali artefici, al fianco del PCI e delle altre forze antifasciste, della guerra di Liberazione e della stagione costituente successiva.
Non basta. Perché l’antifascismo non è solo da considerarsi fatto italiano o europeo. Esso è stato di più. Se infatti il fascismo ha rappresentato la risposta violenta, organizzata, del Capitale alla Rivoluzione d’Ottobre che portava la possibilità del mondo nuovo fuori dall’ambito delle aspirazioni, facendone un fatto storico concreto che veniva a sconvolgere tutti i preesistenti rapporti di dominazione (di classe, coloniali, ma anche ad esempio di genere, nella misura in cui la Rivoluzione dei soviet aveva aperto la possibilità di affrontare la questione della liberazione della donna, di contrapporre al patriarcato – esemplare la riflessione di Aleksandra Kollontaj – una nuova morale nei rapporti tra i sessi), allora l’antifascismo è stato pienamente da intendersi come un fatto di portata mondiale dagli effetti durevoli, vero dirompente elemento di trasformazione sociale e terreno d’incontro tra i comunisti e l’ampio movimento democratico da cui, scrivono Marx ed Engels nel Manifesto comunista, essi hanno il dovere di non separarsi mai, avanguardia consapevole del movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
Tutto questo per capire come oggi il capitalismo italiano, che pratica la più intensa violenza di classe innanzitutto sul piano ideologico , egemone all’interno su una società che sempre più spinge alla putrefazione e minacciato dall’esterno dalla crisi strutturale della cosiddetta «economia di mercato», esprima nella riaffermazione – contro uno schieramento antagonista in disarmo – della continuità della Storia nazionale, la volontà di affermare sé stesso, il proprio controllo sul paese per compattarlo al seguito delle classi dominanti nella partecipazione alla fase di spaventosa violenza imperialista di cui proprio l’aggressione alla Libia, condotta illegittimamente al seguito di Stati Uniti e Francia e nella più classica tradizione dell’imperialismo straccione che si accoda a dispetto dei propri interessi alle potenze predominanti per accedere alle briciole del bottino, rappresenta un atto significativo ed emblematico.
Un’Italia che dunque partecipa alla nuova fase di moltiplicazione delle guerre regionali al fianco delle potenze atlantiche per fortificare le posizioni nella lotta contro gli inediti concorrenti in rapido sviluppo (Cina, Russia, India, Brasile, Sudafrica) e che, nella misura in cui moltiplica il proprio potenziale militare e la propria aggressività nei rapporti internazionali, porta direttamente al governo i rappresentanti diretti del Capitale e dei suoi apparati di violenza (Trilaterale, Banca Intesa, Unicredit, NATO, Vaticano sono tutti egualmente rappresentati nel governo presieduto da Mario Monti). Il paese è stato d’altra parte lungamente preparato allo scopo da una sapiente opera d’indottrinamento ideologico delle masse condotta con le armi della retorica dei diritti umani e del revisionismo storico, da un lato con la legittimazione di missioni militari (si ricordino ad esempio quelle degli anni Ottanta e Novanta in Libano, Somalia, Albania) finalizzate al rafforzamento della presenza italiana in aree tradizionalmente teatro del nostro intervento a beneficio degli interessi strategici dell’asse atlantico, dall’altro lato con la lenta sedimentazione di un’opera di riproposizione della più sciovinista e revanscista retorica patriottarda coniugata con elementi ai limiti del razzismo (si pensi a come la questione delle foibe è stata agitata come catalizzatore dell’odio antislavo proprio in coincidenza con la partecipazione del nostro paese al dilaniamento della Federazione Jugoslava secondo un piano spartitorio perseguito dalle potenze della NATO fino alla guerra del 1999, anch’essa promossa non per caso, in Italia, dal centrosinistra guidato dall’ex PCI Massimo D’Alema). D’altra parte, più di recente è stato lo stesso Presidente Napolitano a contribuire in modo decisivo all’adesione dell’Italia alla coalizione contro Gheddafi, tramite la pressione attiva esercitata su un recalcitrante Berlusconi per spingerlo ad affiancare i «volenterosi» nella sanguinosa impresa neocoloniale in Libia.
Che poi la sostituzione di un Berlusconi ritenuto non più funzionale agli interessi dei grandi gruppi monopolistici sia stata orchestrata dallo stesso Napolitano e spinta fino all’esautoramento del Parlamento (in una repubblica parlamentare!) emblematicamente rappresentato dall’emissione di un comunicato che «per rassicurare i mercati» annunciava la data di approvazione di una legge di bilancio in quel momento non ancora in discussione alle Camere, la dice lunga.