di Selena Di Francescantonio
su Liberazione – Giornale comunista, martedì 15 ottobre 2013
Può una sola settimana di mobilitazione mondiale cercare di riscattare, almeno un poco, più di dodici anni della vita di un uomo trascorsi in carcere, un quarto dei quali in isolamento? Certo che no, eppure è quanto siamo tenuti a fare, per ciò che è nelle nostre possibilità, al fine di manifestare ancora una volta la nostra presenza e il nostro sostegno per il quotidiano, logorante, assurdo sacrificio cui, dal lontano 2002, è sottoposto Ahmad Sa’adat, parlamentare e segretario generale del FPLP, Fronte Popolare di Liberazione della Palestina.
La sua storia è ormai tristemente nota, tristemente simile a quella degli oltre 5000 prigionieri politici palestinesi incarcerati in Israele, tristemente esemplificativa di quanto perdurante, ostinato ed inumano possa essere il progetto sionista, incondizionatamente votato allo spossessamento criminale con ogni mezzo di tutto quello che ai palestinesi appartiene: la loro terra, le loro case, i loro diritti, la loro unità, la loro speranza, la loro vita.
Sa’adat successe ad Abu Ali Mustafa (ucciso dagli israeliani nel 2001) alla guida del Fronte. L’anno successivo segnò l’inizio del lungo periodo di prigionia che si protrae ancora oggi: con l’accusa di aver organizzato l’omicidio dell’allora ministro israeliano del turismo Rehavam Zeevi e di essersi sottratto, con l’aiuto di Arafat, alla consegna nelle mani degli Israeliani, Sa’adat venne dapprima arrestato proprio dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ed imprigionato a Gerico, nella zona orientale della West Bank, a seguito delle trattative svoltasi tra la stessa ANP e l’asse USA, UK, Israele. In questa prigione egli rimase per più di quattro anni, sorvegliato costantemente da un manipolo di soldati inglesi ed americani, fino al Marzo del 2006 quando, a seguito di un prolungato assedio del carcere da parte dell’esercito di Tel Aviv che costò la vita a due palestinesi e provocò una ventina di feriti stando alle fonti ufficiali, egli venne consegnato alle autorità israeliane con l’accusa aggiunta di costituire un pericolo per la “sicurezza” di Israele. Processato di fronte al Tribunale militare israeliano nel 2008, Sa’adat dichiarò di sentirsi legittimato a non riconoscerne l’autorità in quanto estensione- sulla base del diritto internazionale- dell’occupazione illegale sionista in Palestina: fu condannato a scontare 30 anni di reclusione nel carcere israeliano di Hadarim, reiterando l’accusa di aver attentato alla sicurezza del Paese e nonostante non vi fosse stata alcuna prova certa del suo personale coinvolgimento per l’omicidio di Zeevi, che comunque venne considerato una rappresaglia per l’uccisione di Abu Ali Mustafa.
Oggi, dopo più di dodici anni, Sa’adat si trova ancora in carcere ed è degli ultimi mesi la notizia del suo trasferimento improvviso nella prigione di Shatta, sempre in Israele.
In un’intervista del 2006, dall’interno della sua cella, Sa’adat dichiarò: «Non deve sorprendere che gli Stati Uniti e l’Unione Europea abbiano inserito il FPLP nelle loro liste di organizzazioni terroristiche; la cosa risulta funzionale per poter marchiare l’intera resistenza palestinese come terroristi. Fa parte del “pacchetto” della politica americana finalizzata a imporre la propria egemonia sul resto del mondo».
Ma quali sono le caratteristiche di questo movimento e quali le differenze rispetto alle altre organizzazioni storicamente radicate nella lotta di resistenza in Palestina? E a quali conclusioni giungere in questa settimana, dal 17 Ottobre 2013 al 24, di azione globale di solidarietà per i prigionieri politici, tra cui, appunto, spicca il nome del leader del Fronte Popolare?
L’FPLP, fondato nel 1967 dal dottor George Habash, già dall’anno successivo aderisce all’ OLP. D’ ispirazione marxista-leninista, questa formazione politico-militare si contraddistingue fondamentalmente per cinque capisaldi: anticapitalismo, antisionismo, nazionalismo palestinese e panarabismo, secolarismo e appoggio della tesi dello Stato unico come soluzione del conflitto mediorientale. Da sempre sostenitore della necessità della lotta anche armata a fronte della minaccia (non solamente) militare rappresentata dallo Stato di Israele, il Fronte abbandona nel ’74 il Comitato Esecutivo dell’OLP (salvo poi rientrarvi nel 1981), raggiungendo il cosiddetto Fronte del Rifiuto, allineandosi tra le posizioni in aperta critica alle politiche che l’OLP era venuta ad adottare, in particolare per quanto concerneva l’abbandono del fine della distruzione di Israele e l’abbraccio della soluzione binazionale. Già all’indomani della nascita dell’ANP, avvenuta nel ’94 in applicazione degli accordi di Oslo tra Israele e l’OLP per consentire l’amministrazione congiunta e la cooperazione con il controllo israeliano di sicurezza nelle tre zone residuate dalla suddivisione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, il FPLP reclama la cancellazione degli obblighi derivanti dalla convenzione, sottolineando come ciò sia assolutamente necessario al fine di non agevolare l’occupazione: la cooperazione con Israele e con gli Stati Uniti in materia di “sicurezza” e, in particolare, di arresti politici, in realtà mina il raggiungimento di un’unità nazionale del popolo palestinese, disgregando le opinioni ed incanalandole verso fronti più favorevoli al compromesso, un compromesso, però, che per parte israeliana è disposto a concedere veramente poco o nulla.
Ad oggi l’OLP di Abu Mazen si divide in due fazioni: Al-Fatah, la principale, che raccoglie quasi il 42% dei consensi e, appunto, l’FPLP che con il 4,5% si conferma comunque essere il terzo partito palestinese. A sedici anni dalla sua comparsa, invece, Hamas – che, però, dell’OLP non fa parte – conquista il 44,45% dei voti, in considerazione del fatto che, dalla battaglia del 2007, controlla l’intera Striscia di Gaza. Si potrebbe, anzi, prendere a paradigma proprio questa guerra civile per rendersi conto di quanto gravi e profonde siano le divisioni all’interno dello stesso popolo palestinese; le consultazioni elettorali del 2006 confermarono un quadro difficile, in cui risultava evidente la spaccatura di opinioni tra i sostenitori delle due principali fazioni: Hamas vinse con uno stacco circa del 3% e fu subito chiaro che, senza un compromesso tra i due partiti, il controllo del territorio sarebbe stato – ed effettivamente così avvenne – arduo e conflittuale.
Attualmente la situazione non pare peraltro essersi risolta, nonostante l’intervento di un accordo politico di riconciliazione nazionale tra Fatah e Hamas, volto alla formazione di un governo congiunto, soprattutto se si prende in esame la posizione da sempre assunta da Israele, Stati Uniti, Unione Europea , altre potenze occidentali e Stati arabi “amici”: sospensione degli aiuti internazionali ed imposizione di sanzioni nei confronti del governo palestinese, in tutti i casi in cui esso venga guidato (o co-amministrato) – anche laddove vi sia stata una regolare consultazione elettorale – da una “organizzazione terroristica” che faccia dunque ricorso alla lotta armata, non riconosca il diritto ad esistere dello stato di Israele, ed in conseguenza di ciò non ottemperi agli oneri scaturiti in capo all’OLP a seguito dei c.d. “accordi di pace”.
Sarebbe appena il caso di specificare quanto, nella stragrande maggioranza delle opinioni in merito al conflitto mediorientale, sia dato per assunto l’auspicio della cessazione delle ostilità e del raggiungimento di una situazione di stabilità pacifica. Ma sarebbe ancor più corretto dire che, in realtà, ciò che ci si dovrebbe augurare è il venir meno della necessità della lotta, da parte di una popolazione disperata, umiliata, cacciata dalla propria casa e stipata in campi profughi e in vere e proprie prigioni a cielo aperto, depredata, abbandonata, discriminata, massacrata; ciò avviene per delle precise ragioni, da quando nel lontano 1948 si decise la spartizione arbitraria di una terra abitata da sempre da una popolazione araba che però, anche se ugualmente semitica, risultava incompatibile col progetto di costruzione di uno Stato etnicamente “puro”, una sorta di oasi ebraica. Questo l’assioma del sionismo, un punto incontrovertibile sul quale appare impossibile soprassedere in un qualsivoglia accordo con la controparte.
Fino a che punto può spingersi il diritto ad “esistere” di uno Stato? E quando questo diritto viene rivendicato da due parti contrapposte, sulla stessa terra, come si può stabilire quale sia quella vittoriosa, quella meritevole? Sostenere la tesi dello stato unico significa rispondere ragionevolmente proprio a questo quesito: la soluzione di una convivenza pacifica di due popoli nel medesimo territorio, che mantenga i propri confini ed il proprio storico nome, Palestina, e che garantisca ad entrambi di conservare la propria identità senza la pretesa di imporla o renderla egemone ad ogni costo; in altre parole, tolleranza, coesistenza, riconoscimento di cittadinanza e pari diritti per tutti gli abitanti, a prescindere dall’etnia o dalla religione. Equità.
Dalla Nakba del ’48, passando attraverso il massacro di Sabra e Shatila, alla costruzione del Muro della vergogna in Cisgiordania fino all’operazione Piombo Fuso che fece una carneficina nella Striscia di Gaza nel 2009: la violenza che chiama altra violenza. Ma è proprio il primo articolo della stessa Carta delle Nazioni Unite a sancire, almeno in teoria, quello che dovrebbe essere il sacrosanto diritto di un popolo dominato a reagire: il fine delle Nazioni Unite dovrebbe essere quello di “sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-determinazione dei popoli” .
È per questi motivi che non ci si può esimere dal prendere una posizione, dall’informarsi e dallo schierarsi in favore degli oppressi in una situazione drammatica come quella del conflitto israelo-palestinese. È per questi motivi che assume grandissimo interesse la posizione di Sa’adat , critica in primis proprio nei confronti della leadership palestinese nel momento in cui essa giustifica il proprio sostegno alle trattative sulla base della “garanzia”, ricevuta dagli USA, di una presunta astensione da parte di Israele dall’applicazione di misure provocatorie. In tal modo essa agisce in senso favorevole proprio agli oppressori, compromettendo l’unità nazionale di un popolo e contribuendo all’arresto per motivi politici delle sue personalità di spicco, le quali vengono detenute per decenni in prigione, senza alcuna considerazione per il rispetto dei diritti umani sanciti dal diritto internazionale ( il leader del FPLP è tenuto in isolamento dal lontano Marzo 2009, assieme a molti altri prigionieri palestinesi appartenenti alle diverse fazioni).
È per questi motivi che è importante e doveroso chiedere subito la liberazione di Ahmad Sa’adat e di tutti i prigionieri politici palestinesi.
“ [… ]Ma nel fondo della mia prigione,
dal fondo della mia geenna,
l’anima mia è
dritta e immobile,
senza cedere davanti al genocidio.
Dritta e pronta
all’appuntamento
con la fratellanza,
sugli aridi sentieri
della dura LIBERTA’.
Dal fondo della mia prigione,
allungo la mano
per costruire un mondo
solidale.
Un mondo che dica ciò che è essenziale.
Un mondo che porti agli uomini.
Un mondo che esprima l’Uomo.”
Joseph M. Tala, poeta camerunense