di Alessio Arena
Ieri se n’è andato un assassino. L’agonia è stata lunga e l’individuo, con i suoi ricordi intrisi di sangue e sporcizia, con i pensieri di sterminio che ne hanno accompagnato l’intera esistenza, da tempo non era più presente a se stesso. Ieri il suo corpo ha smesso di funzionare e con tutti gli onori verrà preparato all’omaggio dello Stato che ha servito per tutta una vita e per lungo tempo guidato. Il crimine sopravvive dunque al criminale, si approfondisce e si perpetua ogni giorno. Ogni giorno cammina fra la polvere dei campi profughi, nei territori occupati, nelle enclave trasformate in ghetti da bombardare fino a svuotarli prima di vita, poi di memoria, infine di popolo.
Un macellaio è morto per trasformarsi in padre della patria, in campione della causa. Nella fantasia esaltata dei discepoli il suo volto occuperà un posto d’onore come esempio da seguire per i “ricostruttori del tempio”. Evviva la venerabile carcassa che insegna loro a riempire gli ospedali degli arti tranciati dei figli impuberi dei loro nemici! Viva la fermezza che caratterizzava la mano del defunto, quando la usava per estirpare dalla terra promessa da Dio ai loro avi la presenza sgradita di quelli che il colonialismo europeo chiamava i “negri del deserto”!
Il “mondo libero” fa eco al lutto dei campioni del popolo eletto. Lo trasforma, lo riformula per farlo ingoiare allo scetticismo aperto all’ostilità delle masse attanagliate dalla crisi, all’odio potenziale delle anime candide inorridite dai sentori della guerra. Un costruttore di pace! Un coraggioso in grado di sfidare le proprie convinzioni per arrivare a una soluzione giusta e dignitosa, che garantisse il diritto ad esistere di uno Stato inventato a tavolino col pretesto di risarcire il torto immenso fatto ad alcuni con il dolore e la morte di altri, incolpevoli e già mille volte vittime prima di allora.
Certamente i nostri padroni, i nostri potenti, i nostri apparati militari hanno perso un amico fidato. Piangono ritualmente la dipartita dello stimato compagno di massacri. Che stile inimitabile aveva il defunto! Quale risolutezza nel resistere a ogni remora morale, nel perseguire lucido e scientifico l’obiettivo! Se ne ricorderanno a lungo negli anni a venire, perché senza memoria l’uomo non saprebbe nulla e non saprebbe far nulla, e pure l’omicidio di massa progredisce attraverso un processo ininterrotto di apprendimento. La carcassa del defunto resterà nelle memorie degli epigoni di tutto il mondo, nei servitori degli stessi perversi interessi, come una pietra miliare della sintesi tra pensiero ed azione.
Impariamo dai nostri nemici. Facciamoci insegnare dal loro pianto di ghiaccio, dalle loro parole di rito che offendono con la vuotezza il vocabolario di tutte le lingue del mondo, a odiare il defunto nella morte come lo abbiamo odiato in vita, a combatterlo nel crimine perpetuato dai suoi successori come lo abbiamo combattuto quando spavaldo percorreva la Spianata delle moschee cercando al suolo, da bestia, la traccia di sangue capace di condurlo sui luoghi di nuovi massacri.
Ariel Sharon, il boia, non è morto oggi. Se n’era già andato da otto anni, lasciandoci la speranza che, se la coscienza l’aveva abbandonato, almeno il corpo stesse espiando col dolore il dolore arrecato, con lo strazio dell’agonia quello mille volte più sordo e infinitamente moltiplicato nello spazio e nel tempo del popolo palestinese per cui il sionismo ha da decenni decretato la morte.
Non rallegriamoci: il boia è morto, ma la sua opera torreggiante resta come una sfida alla nostra capacità di avanzare verso la giustizia per tutti, giganteggiando come la più limpida testimonianza di arbitrio criminale del mondo contemporaneo. Quando l’avremo abbattuta potremo prenderci un momento per gioire, da subito iniziando la guardia perche il boia non risorga mai più.