Chávez a Milano: la Patria Grande umana

Una testimonianza della visita del Comandante Hugo Chávez a Milano (ottobre 2005), scritta in occasione dell’iniziativa mondiale “Por aquí pasó Chávez“.

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di Alessio Arena

logoporaquichavezPORTADANon conservo una memoria precisa dei dettagli della serata del 17 ottobre 2005. Non saprei dire se facesse bel tempo o se fosse nuvolo e conservo solo il vago sentore dell’effetto pungente del sopraggiungere dell’autunno. La memoria umana funziona così: subisce il trascorrere del tempo e conserva dei momenti importanti solo l’essenziale, la cui selezione varia da persona a persona e molto a seconda delle fasi della vita.

Nell’autunno del 2005 mi accingevo a compiere i ventuno anni, la mia militanza comunista durava già da sette e la mia coscienza politica era stata forgiata da numerose esperienze, anche di portata internazionale, ancora non del tutto passate al vaglio della riflessione critica che ha fatto di me quello che sono oggi. Veniva allora proprio dal Venezuela, dalla sua Rivoluzione Bolivariana e dall’esempio del suo Comandante Hugo Chávez Frías una spinta determinante in questo senso: quella a consolidare e approfondire le mie convinzioni per far parte organicamente, con la lotta politica come parte essenziale della vita, del flusso della storia del mondo che cambia.

A noi, giovani militanti comunisti italiani segnati dalla liquidazione di un PCI mai conosciuto ed educati nell’epoca dell’egemonia ideologica della teoria della «fine della storia», emblematicamente enunciata dal pennivendolo del Dipartimento di Stato USA Francis Fukuyama all’indomani del collasso dei sistemi socialisti dell’Europa orientale, il nome di Hugo Chávez era rimasto pressoché ignoto fino a pochi anni prima, fino al complotto fascista dell’aprile 2002 che aveva portato al fallimentare colpo di stato respinto dal popolo venezuelano. All’epoca del golpe non sapevo nulla di quanto avveniva in Venezuela a seguito dell’elezione di Chávez alla presidenza. Ascoltavo il telegiornale e sentii la giornalista di turno annunciare che i vertici delle forze armate avevano rovesciato il «dittatore» di Caracas in nome del ritorno alla «democrazia». Mi insospettii. Nelle convulse giornate successive, le poche notizie che filtravano da oltre Atlantico, reperibili quasi esclusivamente sui canali militanti, mi convinsero della fondatezza dei miei sospetti.

Quel mese di aprile 2002 Chávez non vinse solo una battaglia cruciale per le sorti della sua patria: egli fece udire la sua voce vigorosa di soldato in tutto il mondo, affermando con le parole e con fatti tangibili la verità già impressa nel profondo delle convinzioni di noi tutti, militanti rivoluzionari della terra: che l’era delle rivoluzioni sociali, esplosa nel mondo con la rivoluzione bolscevica del 1917, non solo non è finita, ma cammina tra gli uomini e le donne del mondo intero promettendo loro la salvezza dalla violenza, dall’arbitrio, dalla povertà, dalla malattia che sono i segni distintivi del dominio ancora saldo del Capitale sulle nostre vite. Il soldato di Sabaneta divenuto presidente del Venezuela per via elettorale era venuto a ricordarci quello che già sapevamo: gliene fummo grati e imparammo a conoscere il suo paese, a seguirne con partecipazione le vicende, a difenderlo contro la virulenza venata di paura degli attacchi della propaganda del regime nostrano.

Quando oltre tre anni più tardi apprendemmo della sua imminente visita a Milano, dell’incontro alla Camera del Lavoro, il preavviso fu breve. Lo sapemmo uno o due giorni prima. Allora dirigevo l’organizzazione regionale della Federazione Giovanile Comunisti Italiani: stilammo in tutta fretta un comunicato stampa di benvenuto e ci preparammo a partecipare all’evento.

Quando giungemmo alla Camera del Lavoro all’ora convenuta ci rendemmo subito conto che se l’incontro si fosse tenuto come previsto al coperto, nel salone dedicato a Giuseppe Di Vittorio, non saremmo mai riusciti a entrare. Nell’ampio spazio abbracciato dalle due ali d’austera architettura del Ventennio della sede sindacale si cominciava per questo a sentir correre qualche mormorio di scontento, ben presto messo a tacere dalla notizia che, su richiesta pressante dello stesso Chávez, il suo abbraccio alla sinistra milanese avrebbe avuto luogo su quella stessa piazzola. Di lì a poco il Comandante si affacciò alla balconata contornata da scalinate che domina la parte inferiore della facciata della Camera del Lavoro, accompagnato da una composita rappresentanza del mondo politico, sindacale, culturale e associativo progressista milanese.

Dei discorsi di saluto dei rappresentanti italiani presenti ricordo poco. Mi viene alla memoria in particolare l’evocazione di come la Camera del Lavoro fosse stata, il 25 aprile 1945, il teatro del primo comizio politico di Milano liberata dal nazi-fascismo ad opera delle forze partigiane. Una circostanza emblematica che in occasione del 25 aprile 2013, il primo dopo la scomparsa fisica del Comandante, avrebbe contribuito a ispirare la partecipazione di noi studenti comunisti alla manifestazione per il giorno della Liberazione sotto uno striscione che recitava: «Antifascismo è Rivoluzione: Chávez vive». Una concomitanza importante perché Chávez e i nostri partigiani, la Resistenza antifascista e la Rivoluzione bolivariana, rappresentano parte della Storia della guerra degli oppressi contro gli oppressori, dell’affermazione dell’Umanità contro l’arbitrio e l’ingiustizia. Esse sono momenti gloriosi della trama del mondo nuovo che i popoli tessono con le loro lotte e le loro inestinguibili speranze per l’avvenire. Qui risiede il senso profondo del motto chavista «Patria è Umanità»: una formulazione lucida e sintetica dell’essenza stessa dell’internazionalismo proletario, ossia di quella concezione dei rapporti tra i popoli che non vede le identità, le peculiarità, la diversità dei percorsi storici come un problema o una limitazione (a concepirli così è il cosmopolitismo borghese, che tutto vuole omologare per permettere alla classe che lo esprime di dominare su tutto: un perfetto corollario ideologico dell’imperialismo), ma come il contributo di ogni popolo al progresso verso la dignità per tutti.

Quando il Comandante prese la parola, subito avvenne un primo, piccolo ma emblematico miracolo. La folla che assisteva all’incontro rifiutò la traduzione: si era stabilita tra l’oratore e gli ascoltatori una comunione istintiva, una comprensione certamente dovuta alla prossimità delle lingue, ma impossibile se non completata dal comune orizzonte di idee, da una passione trasformatrice dell’esistente che arde ovunque nel mondo e che avvicina gli uomini, li rende parte, davvero e in modo sempre più stretto, di un’unica comunità a venire. Negata la biblica Torre di Babele, ricomposte per una sera le cesure della lunga e travagliata storia dei popoli di lingua latina. Lo stesso Chávez si mostrò sorpreso di quella comprensione immediata e forse essa contribuì in misura non trascurabile a confermargli di essere in visita a una tra le miriadi di città della Patria Grande umana alla cui costruzione ha dedicato la vita.

Seguì un lungo discorso. Voglio ricordarne solo tre passaggi. Il primo verte intorno a tre figure emblematiche: quelle del Libertador Simón Bolívar, della sua compagna di vita, la splendida rivoluzionaria ecuadoriana Manuela Sáenz, e del nostro Giuseppe Garibaldi, così vicino al cuore dei progressisti di Nuestra America. Chávez volle evocare lungamente la figura di Garibaldi, restituendole la luce libertaria che la «storia ufficiale» italiana le ha tolto. Volle parlarci, come per ricordarcelo, dell’internazionalista ante litteram che partì per l’America latina per mettere le sue forze e l’esperienza di condottiero al servizio della liberazione dei popoli del continente lontano. E volle parlarci di come, visitando il Perù, Garibaldi si fosse recato a rendere omaggio a Manuelita esiliata da quella che ormai aveva cessato di essere la Grande Colombia, costruita da Bolívar nel 1819 per sfumare dopo soli dodici anni insieme alla vita del suo profeta. Chávez profuse il racconto della sua capacità oratoria, ma soprattutto lo intrise di spirito internazionalista, facendone la dimostrazione lampante di come la passione umana per la libertà, questo movente irrefutabile delle dinamiche sociali reso esplicito dalla Rivoluzione francese e legato irreversibilmente alla questione sociale dall’Ottobre rosso, abbia un carattere intrinsecamente internazionale. Parlare della lotta di un popolo per liberare sé stesso, raccontare del Venezuela dopo il 1999, del Risorgimento assassinato nel 1861 dai Savoia e da Cavour, riflettere delle spedizioni bolivariane del XIX secolo e della Grande Colombia sfumata nel 1831, stabilisce una profonda comprensione tra luoghi e culture lontane, capaci di confrontarsi e di apprendere reciprocamente se ciascuna resta saldamente ancorata al proprio concreto percorso storico, alla propria traiettoria collettiva, unica ma valida come insegnamento per tutti. Antonio Gramsci e il suo pensiero dentro un aneddoto su Manuela Sáenz e Garibaldi.

Gramsci, appunto. Nel parlarne la voce di Chávez risuonò di entusiasmo e ammirazione. Ci disse di come avesse perfezionato la sua familiarità con gli scritti carcerari del sardo immortale durante la prigionia seguita al tentativo di sollevazione rivoluzionaria contro la corruzione della IV Repubblica del 4 febbraio 1992. Ci testimoniò di come quell’insegnamento pulsasse nel cuore stesso della Rivoluzione venezuelana. M’introdusse alla piena comprensione della portata dell’influenza del pensiero rivoluzionario scaturito dall’esperienza storica del mio popolo sulla marcia in avanti dell’Umanità nei luoghi geografici da noi più distanti. Quell’influenza avrei potuto misurarla ancora tante e tante volte, nelle parole e negli atti del Comandante come tra i dirigenti bolivariani che ho da allora avuto modo d’incontrare. Una presenza, quella di Gramsci nella rivoluzione latinoamericana, che proprio pochi mesi fa mi è stata confermata nei termini più specifici ed esaurienti dall’Ambasciatore Rodríguez nel corso di una lunga intervista concessami per il quotidiano Liberazione. Sicché la sottomissione coloniale della Sardegna in cui Gramsci vide la luce nel 1891, le lotte degli operai torinesi nel primo dopoguerra, la fondazione del Partito Comunista d’Italia a Livorno nel ’21 e le Tesi di Lione vivono come indicazione di lotta dall’altra parte del pianeta e continuano ad essere motivo d’ispirazione al movimento, all’organizzazione, alla battaglia. Prima della serata del 17 ottobre 2005 non avevo mai davvero avuto modo di misurare l’importanza di tutto questo fino in fondo. Fu merito di Chávez rendermene completamente, definitivamente partecipe.

Infine ricordo con gratitudine l’omaggio del Comandante al ruolo svolto dalla nostra classe operaia e dal suo Partito Comunista Italiano nella lotta antifascista. Quando volle evocare la centralità dei comunisti nella nostra lotta di Liberazione, un coro di orgoglio proruppe dalla mia gola e da quelle di chi mi accompagnava: «Viva il Partito Comunista Italiano di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer». Chávez ci udì, s’interruppe e ci fissò intensamente per pochi istanti prima di riprendere a parlare.

Non fummo gli unici quella sera a sottolineare in questo modo un passaggio del discorso del Comandante. Esso fu ricco di riflessioni multiformi, di spunti. Fu un discorso pienamente espressivo della singolarità teorica dell’oratore, della sua originalità sempre prodiga di occasioni di confronto. Ma con quei tre passaggi: Garibaldi, Gramsci, l’omaggio alla resistenza comunista italiana, egli ci fece comprendere fino a che punto ci conoscesse, ricordandoci così la genealogia etica, il lignaggio di sudore, sangue e ideali dell’impegno che ci spinge in avanti e che, nei poco più di otto anni trascorsi da quella sera del 17 ottobre 2005, mi ha avvicinato alla patria del Comandante, da me mai visitata se non con la fantasia attraverso i romanzi salgariani, fino a sentirla come mia, vicina, pienamente comprensibile nell’essenza perché umanamente meno distante da qui di quanto l’aridità della geografia fisica non vorrebbe far credere.

Ecco dunque il mio ricordo del Chávez di quella sera: sintesi rivoluzionaria; comprensione profonda, politica e umana, del qui e dell’ora, dell’Italia come del Venezuela; capacità assoluta di connessione sentimentale con le masse. Il Chávez che ricordo, che ispira insieme ai giganti che lo hanno preceduto la mia militanza rivoluzionaria, è per tutte queste ragioni il volto, la figura di quelle parole definitive: «Patria è Umanità».

 

Milano, 2 febbraio 2014

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