Frida Kahlo: ritratti di una combattente

di Selena Di Francescantonio

Selbstbildnis mit Dornenhalsband

La principale domanda che mi sono posta dopo aver visitato la mostra dedicata a Frida Kahlo alle Scuderie del Quirinale di Roma (20 marzo – 31 agosto 2014) e che ha innestato il desiderio di scriverne, è stata: perché autoritrarsi?

A fronte della lunghissima serie di autoritratti distintiva dell’attività artistica della famosa pittrice messicana, infatti, la domanda sorge spontanea: perché una tale fissazione – quasi morbosa – sulla propria immagine, sul proprio volto, seppur collocato in contesti differenti, attorniato dai più disparati oggetti o animali, dalle simbologie? Non si esaurisce certo qui la produzione di quest’artista. Eppure si potrebbe dire che l’autoritratto, in particolare, sta all’arte di Frida Kahlo come la macchina da scrivere sta allo scrittore; un rapporto caratteristico e inscindibile tra un artista e il suo metodo espressivo.

La pittura di Frida è delicata e allo stesso tempo violenta. Gli sguardi, solo apparentemente simili, dei suoi innumerevoli autoritratti trafiggono l’osservatore con saettate ora di dolore, ora di passione, ora di rassegnazione e di disillusione, ora di speranza, attraversandolo con l’intensa potenza del vissuto dell’autrice. La potenza del reale. Ella venne definita come una pittrice surrealista benché Frida stessa scrisse: “Non è vero. Non ho mai dipinto sogni. Quello che raffiguravo era la mia realtà”.

Ecco, quindi, il senso estremamente tragico della sua ricerca pittorica, che fu in realtà un’indagine personale, una scoperta dell’identità e una messa a nudo della sua emotività: una testimonianza trasfigurata del suo intenso vissuto.

La biografia di Frida Kahlo ci aiuta a capire a fondo la sua arte, conducendoci attraverso una vita solcata dalla passione per la pittura e per la vita stessa, accesa dalla vivacità e dall’attivismo politico, segnata dagli incontri, arsa dall’amore ma anche sferzata dal dolore sfrenato dovuto all’infermità fisica e alle sofferenze del cuore, cucita e radicata alle forme e ai colori del Messico natio e travolta dai profondi cambiamenti del Mondo della prima metà del Novecento. Ci furono due momenti cruciali per la pittrice messicana, che incisero irrimediabilmente nel suo percorso: uno fu l’incidente stradale che ebbe a 17 anni a bordo del tram che la riportava a casa da scuola (in cui venne trafitta da un palo che le fratturò il bacino e la spina dorsale, costringendola per tutta la vita a subire dolori insopportabili e operazioni alla schiena e alle gambe, a ricoveri lunghissimi in ospedale, a portare busti in gesso e infine anche a subire l’amputazione di un piede) e l’altro fu l’incontro col celebre pittore muralista messicano Diego Rivera, col quale si sposò e trascorse il resto dei suoi giorni tra drammatici alti e bassi, tradimenti, separazioni e relazioni extraconiugali.

Prima di rispondere all’interrogativo iniziale, mi venga concesso un piccolo excursus.

A mio modo di vedere tutto rappresenta comunicazione e la stessa Arte, in tutte le sue forme, ne è l’espressione più significativa. Vi è, però, un discrimine, seppure a primo impatto sfumato, tra i diversi modi di intendere tale comunicazione attraverso l’opera.

Esiste colui che impiega le sue capacità artistiche principalmente per veicolare ideali e concetti: percepite di base dall’autore stesso come fonte di ispirazione personale, tali idee, attraverso l’espressione artistica, si diffondono, intercettano il maggior numero di coscienze e le “contagiano”. Concependo l’arte come una sorta di vettore sensoriale che connette le persone e le loro sensibilità, si realizza dunque una comunicazione estremamente esplicita, quasi parlante attraverso l’immagine, diretta e motivata proprio da questo desiderio di espansione, rappresentazione della società voluta, predicazione.

D’altro canto vi sono pure autori che ricorrono all’arte mossi quasi esclusivamente da una esigenza emotiva, una spinta passionale che, trasformando in immagine, suono o lettera una forte pulsione interna, sgonfia l’inquietudine e disinnesca la “bomba” dei sentimenti pronta ad esplodere nella sensibilità turbata dell’artista: egli ha necessità di esprimersi. Accade quindi che si realizzi comunque una comunicazione col fruitore dell’opera ma partendo da un bisogno individuale dell’autore che crea a prescindere dalla diffusione presso un pubblico del risultato della propria attività. Questa potrebbe considerarsi un’arte quasi curativa, un placebo per le tempeste emotive.

Sarebbe forse più corretto dire che entrambi i “tipi” di artista comunque muovano da questo stesso bisogno; ma se nel primo caso l’opera sembrerebbe pensata per essere fruita e diffusa, realizzando la propria completezza e il proprio fine appunto nella connessione con l’osservatore, nel secondo caso chi viene a contatto con l’opera stessa potrebbe avere quasi l’impressione di avere in qualche modo “violato” l’intimità dell’autore, come se ne stesse osservando l’universo emozionale attraverso uno spioncino, gettato ed immedesimato tra le forme e i colori più personali dello stato d’animo altrui. Tale osservazione appare particolarmente adatta alle arti pittoriche e figurative.

In latino la parola communico è formata da “cum” (con) + “munire” (legare) e pertanto l’idea di fare partecipe qualcuno di qualcosa attraverso la comunicazione rimanda non solo al semplice concetto di “trasferire” quel qualcosa ma al più profondo intento di allacciamento, di intreccio e connessione… se alla base della comunicazione c’è sempre un desiderio di legame con ciò che è “fuori dal sé”, allora potrebbe dirsi che i vari artisti concepiscano diversamente l’arte- che è una forma creativa di mediazione a seconda del grado di volontarietà nella ricerca di questa connessione? Ovvero: quanto più il desiderio di comunicare è sotteso ad un ancor più elevato desiderio di diffusione, propagazione, irradiazione verso gli altri da parte dell’artista di un suo “qualcosa”, tanto più l’arte nascerà per lui come metodo proprio di questo afflato trasmissivo e sarà dunque volutamente lampante, esplicita, colorita, eloquente, palese.

Diversamente, l’artista maggiormente introspettivo che si confonde con la sua arte nel tentativo di ricercare, definire e dare forma all’eco sfuggente del proprio io, ha un desiderio più inconsapevole di comunicare, tanto da avvertire la necessità della mediazione che la forma artistica fornisce proprio per sfuggire e ripararsi dall’impetuosità della comunicazione diretta ed esplicita. Non a caso, per quanto riguarda la pittura, è frequente riscontrare in particolare nei quadri degli autori di questo tipo parecchie simbologie, elementi reconditi, oscuri o ambigui. Quali, appunto, caratterizzano molti dei lavori della Kahlo.

Riprendendo l’analisi del lavoro della pittrice messicana e in particolare della questione dell’autoritratto ( al termine di una dissertazione pseudo filosofica senza alcuna pretesa), ritengo dunque che Frida Kahlo fu principalmente quest’ultimo tipo di artista, sebbene fu anche estremamente impegnata sul versante politico e sociale e siano molti i suoi dipinti che celebrano la sue convinzioni di comunista e ancor più il suo legame con la sua terra, le sue tradizioni, le sue radici, il contesto sociale del suo tempo. Trovo interessante notare come invece il marito, Diego Rivera, fu un pittore estremamente comunicativo che si impegnò notevolmente nel riprodurre nei suoi quadri ed in particolare nei suoi dipinti murali e negli affreschi il fervore rivoluzionario del Messico dei suoi anni, coniugando l’arte all’impegno politico, attività protesa alla comunicazione e all’organizzazione di massa per antonomasia. D’altronde Rivera fu Segretario generale del Partito Comunista Messicano per svariato tempo e fu politicamente impegnato per tutta la vita (è molto nota anche la vicenda relativa a Trockji, al suo asilo politico in Messico presso la stessa casa dei coniugi Rivera e la relazione amorosa che intrecciò con Frida).

L’autoritratto innegabilmente racchiude inoltre una certa dose di autocelebrazione e di egocentrismo. Ma osservando i lavori dell’artista di Coyocan questo aspetto, sebbene in qualche misura presente, traspare così poco… Frida d’altra parte non si fà sconti: si ritrae cigliuta e baffuta esattamente come nella sua immagine riflessa allo specchio, l’espressione quasi sempre serafica- anche se, come dicevamo prima, solo apparentemente- mentre viene trafitta dalle spine (“Autoritratto con collana di spine e colibrì”), tormentata dal ricordo e dall’amore (“Diego nei miei pensieri”), spesso sconvolgendo volutamente le proporzioni fisiche (come in “La mia balia e io mentre sto poppando”) quando non direttamente con le sembianze di un animale (“Il cervo ferito”, sfortunatamente assente nella mostra di Roma) e infine torturata dalle forbici (“Le due Frida” o “Autoritratto con i capelli tagliati”) ,dalle gabbie toraciche di ferro (“La colonna rotta”) o dalla sofferenza dell’aborto (la mostra ospita il bozzetto del famosissimo quadro “Henry Ford Hospital”).

Autoritrarsi in continuazione fu per Frida un modo di riappropriarsi del suo corpo; un corpo fisicamente inchiodato ad un letto in preda ai dolori e alla disperazione per troppa parte della sua breve vita e emotivamente vincolato senza scampo all’amore per il marito che ebbe tante amanti quante sono le spine di un cactus (compresa una delle sorelle di Frida); il matrimonio con Rivera fu per lei una tortura sui generis, nonostante i numerosi amanti (uomini e donne) che ebbe anche la Kahlo e l’incapacità di convivere serenamente con una mole di sentimenti tanto contrastante e turbolenta: disse spesso che l’incidente col tram fu un evento di gran lunga meno grave della sua relazione con Diego Rivera.

Di fronte ad un quadro di Frida Kahlo, è inevitabile avvertire tutta la commozione data dal trovarsi faccia a faccia (quasi letteralmente) con le più profonde emozioni dell’animo, le angosce e i dolori di una donna comunque estremamente forte, tanto che guardandola attraverso quegli occhi calmi e vividi appoggiati sulla tela pare di riuscire a immaginarsela mentre soffoca un pianto, annaspa nella sua solitudine, maledice le sue sfortune, invoca i suoi amori, vola con la fantasia nel buio della notte in una delle stanze della Casa Blu e, ciononostante, abbraccia e assapora la vita che le è toccata con tutta se stessa.

Anche solo dal dettaglio di un suo dipinto, Frida ci fa dono e ci rende partecipi di uno dei fenomeni senza dubbio più spettacolari e grandiosi che caratterizzano l’ Uomo: la capacità di comunicare creando, cogliere l’immateriale, dare corpo alla felicità e allo struggimento, all’idea e al sentimento, all’amore, come se gli stati dell’animo fossero un gas che permea d’intorno tutto ciò che ci circonda, e che nell’arte va sublimando in un oggetto concreto, un dipinto, un suono, un libro. Eterno demiurgo, l’artista comunica con l’anima e per l’anima. Utilizzando il pennello come un ponte proteso verso lo spirito di ognuno, contribuisce così a costruire una sublime comunanza tra tutti coloro che sappiano percepire la bellezza, l’amore, la giustizia e i più nobili slanci di cui gli uomini siano capaci e intendano innalzarli a prodigioso vessillo del Progresso del Mondo.

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