I cieli dell’ideale e gli abissi degli oppressi. Note sull’agire etico nel mondo feticizzato.

di Luca Paindelli

adorno104_v-ARDFotogalerieCosì Agnès Heller, nel corso del simposio intoltato “Il ruolo di Karl Marx nello sviluppo del pensiero scientifico contemporaneo”[i], ha problematicamente posto, a partire dalle embrionali formulazioni marxiane, l’urgente questione della “definizione del postulato di un etica marxista”: “Marx polemizzava contro la concezione che voleva sostituire le nozioni di capitalista e di operaio con quelle di ‘male’ e di ‘bene’, o contro ogni tentativo di caratterizzare la società dell’avvenire mediante nozioni morali. Credeva come priva di senso la credenza nell’onnipotenza dell’’educazione morale’. Ciò non significa che egli negasse i valori o l’accumulazione di valori: ma non considerava i valori sociali, antropologici, accumulati come di per se stessi morali. […] Per Marx i costumi non appartengono ad una sfera speciale. Quasi tutte le azioni umane hanno un contenuto morale, ma nessuna di esse è un’azione ‘puramente’ etica. I costumi indicano il rapporto oggettivo esistente fra l’individuo e il suo appartenere al genere (rapporto dei valori), nonché il livello a cui tale rapporto si situa (in quale misura l’individuo è cosciente della sua appartenenza al genere, in quale misura adatta a questo fatto la sua personalità, in quale misura i costumi diventano motivo dei suoi atti). I costumi fanno egualmente apparire la saggezza morale (in quale misura l’individuo riconosce i conflitti fra i valori, come è capace di giudicare e scegliere in un caso particolare, in quale misura è capace di applicare i propri principi senza sottomettersi alla situazione)”[ii].
Quella marxista, sottolinea Agnès Heller, è “un’etica dell’immanenza”, un’etica incarnata che si esprime nella concretezza delle condizioni materiali storicamente determinate, nei rapporti sociali di produzione in seno ai quali l’esistenza dell’agente sociale e suoi bisogni vengono plasmati. Il soggetto, inteso come un effetto di rilievo prodotto dal movimento di avviluppo della prassi oggettivante e dalle relazioni sociali in costante transito, non potrà cogliere la portata etica della sua azione e sperimentare un vissuto nuovo della libertà se non mediante il movimento dialettico della prassi storico-rivoluzionaria. La necessità di ridefinire la posizione dell’etica all’interno della prospettiva marxista, che nelle sue passate ricadute ideologiche sacrificò rovinosamente i propri strumenti analitici per tramutarsi in una crassa dottrina positivistica e metafisica fondata su una concezione feticistica della storia, non può essere soddisfatta dalla sola formulazione di un mero codice morale funzionale a regolamentare le dinamiche interne all’organizzazione rivoluzionaria: lo statuto dell’etica impedisce costitutivamente la riduzione del suo compito ad una mera enucleazione di rigidi canoni morali da tradurre in atti collettivamente pianificati, in comportamenti irreggimentati che non possono dare luogo all’emergenza della domanda questionante che scuote la soggettività, inducendola ad esporsi rischiosamente nell’insicura attuazione della scelta.
Le condizioni per definire all’interno dei movimenti socialisti un’etica propriamente marxista non possono che essere date dalla valorizzazione della singolarità, e non dalla sua marginalizzazione burocratica, in accordo con il codice morale funzionale alla strutturazione del partito marxista-leninista: “a) un’etica può formarsi solo in quei movimenti che non si credono assoluti, ma si ritengono un fattore nell’insieme dei movimenti della società, cioè della storia. b) […] è del tutto naturale che l’etica, al pari della dottrina del movimento in questione, passi in primo piano nelle epoche rivoluzionarie (di crisi positiva) e quando nel movimento stesso si manifestano delle contraddizioni (crisi negativa). c) la costruzione dell’etica è possibile e diventa necessaria quando, in seno ad una collettività, il giudizio individuale, e quindi il ruolo della decisione individuale, assumono importanza, e in particolare quando un gran numero di individui si trovano in situazioni nelle quali diventa impossibile per loro agire conformemente al codice. d) da ultimo, perché un movimento si formi un’etica è necessario che esista una coscienza di sé, un’autocritica. Non si tratta con ciò di riconoscere solo la relatività storica, ma della presa di coscienza delle contraddizioni dello stesso movimento, che, per gli individui, si presentano in pari tempo sotto forma di contraddizioni morali”[iii].

Nel corso della rinascita marxista avviatasi nel dopoguerra, la problematica dell’agire morale si è andata sviluppando su molteplici livelli, acquisendo diverse sfaccettature e andando incontro ai più diversi esiti. La più radicale e forse attuale riflessione etica che è stata solidamente costruita a partire dalla critica marxista della società neo-capitalista è forse quella tratteggiata da Theodor Adorno nei Minima Moralia: l’interesse della sua indagine, non più esclusivamente incentrato sulla prassi morale situata all’interno dei movimenti rivoluzionari, va a spostarsi sull’analisi micrologica dei più banali gesti quotidianamente reiterati, sullo studio delle patologie della percezione che congelano il sentire sociale e alienano la soggettività.
I nuclei tematici che caratterizzano la filosofia morale frammentariamente formulata da Adorno nella raccolta di aforismi Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa[iv] trovano una più solida strutturazione teoretica all’interno della successiva Dialettica negativa[v], opera edita nel 1966 che ruota attorno alla valorizzazione della spinta verso l’agire pratico scaturente dalla prassi teoretica del “fare filosofia contro la filosofia”, del “fare il negativo” che connota quella attività critico-rivoluzionaria volta ad operare una radicale sovversione delle schematiche griglie interpretative che feticizzano i significati e cristallizzano l’esplosiva contraddittorietà del negativo. La possibilità di fuoriuscire dall’infinito circolo ermeneutico delle interpretazioni falsificanti, di spezzare il cerchio magico dell’ideologia, di scorporare gli apparati concettuali di quel pensiero totalizzante e fintamente dialettico che si definisce a partire dalla denegazione di ciò che non è identico alla forma del concetto e dall’espulsione dell’indomabile contraddizione oggettiva che resiste al movimento conciliante della ragione strumentale, non può che essere dischiusa se non mettendo il pensiero “a contatto con le cose”[vi], immergendolo negli abissi impenetrabili dell’alterità, affinché il soggetto possa smarrirsi nel mondo sfigurato dalla violenza annichilente della logica del dominio. Disgregandosi nell’oggettività, il soggetto si riappropria attivamente della propria essenza alienata sperimentando l’altro da sé, sopportando e dando finalmente voce alla sofferenza del degradato mondo sociale e naturale, mimando il dolore incessante che attraversa le cose e i soggetti cosificati sottoposti all’azione disumanizzante della logica capitalistica del profitto: “La minima traccia di una sofferenza senza senso nel mondo dell’esperienza smentisce tutta la filosofia dell’identità, che vorrebbe farlo dimenticare all’esperienza: “Finché ci sarà ancora un mendicante ci sarà mito”[vii], Perciò la filosofia dell’identità è mitologia sotto forma di pensiero. Il momento corporale annuncia alla conoscenza, che non ci deve essere sofferenza, che deve diventare diverso: “Dice il dolore: perisci”[viii]. Per questo l’elemento specificatamente materialistico converge con quello critico, con la prassi che muta la società. L’eliminazione del dolore, o la sua attenuazione fino a un grado che non è anticipabile teoricamente e al quale non si può porre alcun limite, dipende non dal singolo, che sente il dolore, ma soltanto dal genere, cui appartiene anche quando egli soggettivamente se ne separa e oggettivamente viene respinto nella solitudine assoluta dell’oggetto impotente”[ix].
Il delineamento della prospettiva etica adorniania nei Minima Moralia trova il suo cominciamento nella caustica critica dello “sguardo aperto sulla vita trapassato in ideologia” proprio della “triste scienza”, della “dottrina della retta vita” “che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna”, il cui campo di indagine è stato ridotto alla mera “sfera del privato”, “[alla sfera] del puro e semplice consumo, che non è più se non un’appendice del processo materiale della produzione, senza autonomia e senza sostanza propria”[x]. Quella del soggetto che abita il mondo rovesciato del capitalismo è allora una “vita che non vive”, una esistenza effimera e insensata che si esprime come puro riflesso e manifestazione dei rapporti di produzione capitalistici: è una vita offesa, rantolante, che tenta invano di ribellarsi con tenacia “all’incantesimo che la trasforma in facciata”[xi].
Il sistema di produzione capitalistico ha ormai dissolto ed estinto la soggettività e la sua esperienza individuale, nonostante i soggetti si credano ancora certi “della propria autonomia; ma la nullità dimostrata ai soggetti nei campi di concentramento investe ormai la forma stessa della soggettività”[xii]. Della soggettività non rimane che un atomo isolato e irrelato, “irrigidito nella sua determinatezza”: un guscio vuoto “che è ancora per sé, ma non è più in sé”[xiii], la cui postura ideologica va a configurare la percezione del suo sentire e del suo agire nel mondo come un’esperienza esclusivamente privata, racchiusa nell’angusto spazio monadico della falsa coscienza cristallizzata, che nega l’esistenza dell’altro-da-sé e ostacola difensivamente ogni tentativo di fuoriuscire dalle ipostatizzate barriere della individualità. Il vuoto lasciato dall’eclissamento e dalla disgregazione del simbolico e dell’ideale è stato occluso, nella società dei consumi, dalla feticistica idolatria della merce; la costitutiva mancanza-ad-essere, dalla quale scaturisce il desiderio che struttura il soggetto in un processo infinito di umanizzazione il cui perno è l’incontro con l’alterità da cui intimamente dipende, è stata patologicamente saturata dall’oggetto-merce, che ha pervertito l’esperienza intersoggettiva del piacere in un acefalo godimento compulsivo e illimitato di cose e di corpi spersonalizzati, in un godimento maligno coercitivamente indotto dalla logica del profitto, il cui intimo e osceno nucleo impositivo si svela nell’imperativo che spinge alla dissipazione assoluta e alla distruzione di ogni legame che non sia strumentalmente manipolatorio.
L’analisi marxista della società su cui va a poggiarsi la critica adorniana della forme di vita demistifica e corrode potentemente i paludosi fondamenti ideologici che costituiscono le fragili basi dell’etica liberale: il campo sociale non è affatto regolamentato da norme e istituzioni neutrali che consentono a ciascun individuo di costruire liberamente la propria forma di vita in base alla scelta di precipue credenze, la cui validità razionale viene vagliata dai criteri etico-normativi propri delle procedure linguistiche comunitarie volte a realizzare la pacifica convivenza democratica[xiv]; sono invece le tendenze oggettive della struttura economico-produttiva che si esprimono nei rapporti sociali di produzione a definire le qualità dell’homo economicus e i tratti della sua personalità, subordinandola coercitivamente alle istanze economiche del Capitale e al suo sistema dei bisogni. Nel mondo rovesciato delle patologie sociali è inevitabilmente volto allo scacco ogni tentativo di rifondare dei criteri normativi solidamente ancorati ad un’idea di bene: nella società capitalistica è tragicamente preclusa qualsiasi possibilità di realizzare una condotta di vita buona, giacché in essa non vi è più alcuna rigida demarcazione che consentirebbe di configurare tradizionalmente le coppie oppostive atte a fondare le condizioni, le antinomie e i principi caratteristici dell’azione morale. Il vero e il falso, il privato e il pubblico, il bene e il male si confondono e si smarriscono nella società del controllo, alla cui logica di dominio gli individui aderiscono inconsapevolmente, introiettandone le strutture nell’esercizio reiterato e ortopedizzante di habitus, di disposizioni ad agire o abiti di risposta, che fungono da principi organizzatori delle forme di vita, per usare le parole del sociologo Pierre Bourdieu[xv]. La credenza nelle antiche virtù e nei vetusti valori un tempo esaltati dalla morale borghese, nonostante possano apparentemente esprimersi in una condotta di vita antitetica alla degradazione del presente, si traducono, nella società neo-capitalista, nella paradossale assunzione di atteggiamenti che distorcono colpevolmente lo sguardo etico sul mondo, delimitandolo e riducendolo alla sola cura delle sorti del singolo agente morale intento a lottare strenuamente in difesa della la sua integrità, della sua dignità e del personale onore, senza tener conto dell’universalità della situazione di brutale sfruttamento e disumanizzazione all’interno della quale il suo particolaristico comportamento si staglia e contro cui deflagra.
La concezione della soggettività alienata che è sottesa alla proposta etica adorniana si differenzia strutturalmente dalle fruste formulazioni ideologiche proprie della cattiva coscienza borghese: “L’individuo deve la propria cristallizzazione alle forme dell’economia politica […] Anche e proprio in quanto resiste alla sua pressione, resta un prodotto della socializzazione, e simile ad essa. Ciò che gli consente di resistere, ogni tratto d’indipendenza, ha la sua radice nell’interesse individuale, monadico, e nel carattere che è un precipitato di quell’interesse. L’individuo riflette, proprio nella sua individuazione, la legge sociale prestabilita dello sfruttamento sia pure ipermediato. […] la sua decadenza non va spiegata individualisticamente, ma dedotta dalla tendenza sociale, nella misura in cui questa s’impone attraverso l’individuazione e non solo contro di essa. È qui che la critica reazionaria della civiltà si separa dall’altra. La critica reazionaria perviene bensì, abbastanza sovente, a rendersi conto della decadenza dell’individuo e della crisi della società, ma addossa la responsabilità ontologica di tutto questo all’individuo in sé, concepito come del tutto libero e interiore […] concepiscono la società come una convivenza immediata di uomini che, con la loro condotta, determinano il carattere del tutto: e non come un sistema che non solo li stringe e il deforma, ma penetra fino in quella umanità che una volta li determinava come individui[xvi]”.
L’intenzione programmatica di coniugare l’analisi critica della società con il tentativo di delineare una nuova prospettiva etica non può che rigettare e sovvertire energicamente le vecchie concrezioni metafisiche su cui la morale borghese si andava a poggiare: “Noi non possiamo sapere che cosa sia il bene assoluto, la norma assoluta, o anche solo cosa sia l’uomo, l’umano o l’umanità, ma che cosa sia l’inumano, quello lo sappiamo con esattezza. E vorrei dire che il luogo della filosofia morale oggi va cercato più nella concreta denuncia dell’inumano che non nel tentativo di collocare in modo irrelato e astratto qualcosa come l’essere umano”[xvii].
A partire dalla critica dialettica delle condizioni materiali e delle tendenze oggettive proprie delle strutture economiche e sociali da cui il nostro agire è determinato, Adorno avvia una feconda riflessione intorno ai possibili esiti delle condotte di vita messe in pratica nel vischioso mondo amministrato, gettando uno sguardo micrologico sulle più molecolari espressioni delle forme di vita, al fine di disvelare il significato ideologico delle più banali abitudini inconsapevolmente reiterate nella quotidianità, che celano in realtà il fallimento della prassi morale . Come ha messo in luce Laura Boella, “affermare che precondizione per la realizzazione della vita buona è il superamento del mondo amministrato vuol dire innanzitutto che nel mondo amministrato il falso/sbagliato seppellisce il buono; in una società cattiva il bene non può essere né fatto né conosciuto, e indipendentemente dalla sua realizzazione, non esiste e non è disponibile come standard indipendente della azione giusta”[xviii]. La cifra dell’inumanità della società consumistica e delle sue relazioni sociali alienate si manifesta nel costante rovesciamento e nella falsificazione dei significati delle azioni morali che si disperdono nel vasto e differenziato campo sociale: “Non si dà vera vita nella falsa”[xix]. L’ambito della condotta umana è ormai sempre più contratto ed istituzionalmente pianificato, inchiodato ed eterodiretto dai rapporti di produzione e dalla sfera dei consumi; purtuttavia, seguendo la linea interpretativa offerta da Laura Boella, il negativismo adorniano, ancorché scadere in un misero esisto nichilistico, apre dialetticamente, a partire dall’indefessa critica delle forme di vita e dalla denuncia senza tregua dell’inumanità della società capitalistico-borghese, la concreta e inaspettata possibilità di scoperchiare le contraddizioni che dilaniano lo stato di cose presente, praticando in esso la negazione del negativo, negando cioè ciò che non dovrebbe essere così, sulla base di una controimmagine che tacitamente si profila nel presente, indicando la possibilità di una emergente realtà altra: un segnale piantato sul terreno duro dell’ideologia, che spinge a dirigersi verso una strada ancora tutta da percorre e da scoprire – per usare le parole con le quali Althusser descriveva il significato della concetto marxiano di praxis –, e non un modello di perfezione che si pretende di possedere già e che semplicemente viene contrapposto al mondo presente; non dunque un’astratta immagine compiuta di vita buona, bensì una immagine sfumata che consente di risvegliare la congelata percezione del negativo, un’immagine che si mostra prassiologicamente attraverso la negazione del negativo, mediante la prassi tesa a rovesciare la falsa totalità.
Gli sforzi compiuti da ogni individuo non vengono affatto concepiti da Adorno come funzionali al perseguimento della salvezza privata: è duramente contestata ogni etica liberale che va a porre l’enfasi sull’autorealizzazione e sull’autoaffermazione individuale attraverso l’utilizzo di mezzi propri, collocando il soggetto all’interno di una società programmata e apparentemente priva di conflitti di classe e laceranti contraddizioni. Il gesto etico o è responsabilmente praticato nella negazione radicale della società esistente, preconizzando dialetticamente e concretamente una collettività nuova, rifondata su legami sociali altri, pienamente umani, liberati dalla gabbia infernale del sistema di produzione capitalistico e dalla logica manipolatoria del suo potere assoggettante, oppure non è. Adorno evita così di sminuire il significato dell’azione etica proiettandolo tutto nella speranza escatologica della realizzazione dell’astratta utopia, nell’idea positivamente e compiutamente definita di un bene universale e totalizzante, che nientifica l’impegno della singolarità fagocitandola nell’illusoria attesa di un avvenire fantasmatico: altresì è programmaticamente eluso il rischio di ricadere nella retorica esistenzialistico-borghese della autenticità individuale[xx], dell’appropriazione personale di una presunta vita ancestrale donata da una nobilitante scelta compiuta nella vertiginosa solitudine, poiché “l’individuo diventa tanto più ricco, quanto più si dispiega liberamente nella società e la rispecchia, mentre la sua definizione e cristallizzazione, che esso rivendica come origine, non fa che limitarlo, ridurlo e impoverirlo […] L’autenticità non è che l’ostinato e caparbio attaccamento alla forma monadica che l’oppressione sociale imprime agli uomini. Tutto ciò che non vuole inaridire, preferisce assumere su di sé lo stigma dell’inautentico, e consumare l’eredità mimetica. L’umano è nell’imitazione: un uomo diventa uomo solo imitando altri uomini. In questo atteggiamento, che è la forma elementare dell’amore, i sacerdoti dell’autenticità fiutano le tracce dell’utopia che potrebbe scuotere il sistema del dominio. […] La scoperta dell’autenticità come ultimo baluardo dell’etica individualistica è un riflesso della produzione industriale di massa. Solo in quanto innumerevoli beni standardizzati tendono a presentarsi, in vista del profitto, come qualcosa di unico e di irripetibile, nasce come antitesi, ma secondo gli stessi criteri, l’idea del non moltiplicabile come del veramente autentico. […] L’illusione della autenticità va ricondotta all’accecamento borghese davanti al processo di scambio. Autentico appare ciò a cui vengono ridotte le merci e gli altri mezzi di scambio: e cioè, anzitutto, l’oro. Ma come l’oro, così l’autenticità, astratta dal suo contenuto metallico, diventa un feticcio. L’uno e l’altra vengono trattati come se fossero il substrato, che in realtà è un rapporto sociale, mentre oro e autenticità esprimono solo la fungibilità, la comparabilità delle cose: e proprio essi non sono in sé, ma per altro”[xxi].
I comportamenti apparentemente anticonformisti e volti al recupero di una presunta purezza sono dunque fatalmente condannati al fallimento: smascherato il loro segreto nucleo ideologico e difensivamente narcisistico, appariranno come condotte inconsapevolmente tese a rafforzare il dominio da cui vorrebbero fuggire.
Adorno, nel tentativo di valorizzare la residuale esperienza del soggetto mutilato, sottolinea come alcune situazioni quotidiane possano consentire l’espressione delle ascose potenzialità della singolarità, mettendola dinnanzi all’irrisolvibile problematicità del negativo: a renderci propriamente umani sono infatti le situazioni ordinarie in cui siamo chiamati a resistere alle ingiustizie, senza subirle passivamente e senza capitolare di fronte ad esse, evitando al contempo di riprodurre inconsapevolmente, anche nelle forme più impercettibili e apparentemente più banali, la stessa violenza che il potere ha impresso sulla nostra carne. Negli anfratti più reconditi e nascosti della nostra personalità, sostiene Adorno, si insidia l’introiettata logica di dominio contro cui siamo chiamati a battagliare duramente per tentare di mantenere sempre aperta la possibilità futura di riappropriarci della nostra essenza di uomini oggi alienata, una volta modificate le precondizioni materiali dell’agire etico: è infatti il residuale barlume di umanità che ancora la vita che non vive possiede a poter gettare la luce della speranza sull’opaco mondo feticizzato, “presentandolo dal punto di vista della redenzione”[xxii]. Ed è proprio nel rapporto con le cose, nelle modalità esistenziali di abitare il mondo, nel vivere le relazioni più intime e significative, nell’assumere su di sé le ingiustizie, che si va dischiudere l’inaspettata possibilità di accedere ad una dimensione disalienante, ad una sfera dell’agire che riflette sì drammaticamente le inemendabili antinomie sociali, ma che al contempo consente l’inedito sprigionamento dialettico del gesto etico. La postura etica del resistente si concretizza allora nella kafkiana mostrazione della propria inermità, nella rischiosa esposizione della propria fragilità, nella disperata opposizione all’indurimento e al congelamento del nostro più intimo e indicibile substrato di desideri e sentimenti, che connota l’illimitata apertura etica verso l’alterità propria della prassi sociale umanizzante: “Non c’è via di uscita da questo irretimento. Il solo atteggiamento responsabile è quello di vietare l’abuso ideologico della propria esistenza, e – per il resto – condursi, nella vita privata, con la modestia e la mancanza di pretese a cui obbliga, non più la buona educazione, ma la vergogna di possedere ancora, nell’inferno, l’aria per respirare”[xxiii].
Non è dissimile la portata etica di questa sintetica e potente formulazione pasoliniana, che può forse essere accostata all’esito problematico a cui conduce l’adornina critica delle forme di vita e il suo tentativo di attribuire, nell’ambito del pensiero marxista, un significato nuovo alla soggettività, valorizzando l’irriducibile complessità del suo poliedrico sentire: “Non si lotta solo nelle piazze, nelle strade, nelle officine, o con i discorsi, con gli scritti, con i versi: la lotta più dura è quella che si svolge nell’intimo delle coscienze, nelle suture più delicate dei sentimenti” xxiii.

[i] Organizzato dal Consiglio internazionale per la filosofia e le scienze umane e dal Consiglio internazionale di scienze sociali a Parigi, 8-10 maggio 1968. I saggi sono stati pubblicati in Italia nei due volumi Marx vivo editi da Arnoldo Mondadori nel 1977.

[ii] Agnés Heller, Il posto dell’etica nel marxismo in Marx vivo. Volume primo, filosofia e metodologia, Arnoldo Mondadori, 1977, pg. 327.

[iii] Ibidem, pp. 320-321

[iv] Testo edito in Germania nel 1951.

[v] Theodor W. Adordno, Dialettica negativa, Einaudi, 2004.

[vi] Theodor W. Adordno, Minima Moralia. Meditazione della vita offesa, aforisma 153, Eianudi, 2005, pg. 304.

[vii] Walter Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, 2010

[viii] Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Mondadori, 2001

[ix] Theodor W. Adordno, Dialettica negativa, Einaudi, 2004, pg. 181-182

[x] Theodor W. Adordno, Minima Moralia. Meditazione della vita offesa, pp. 3-4.

[xi] Ibidem, pg. 3.

[xii] Ibidem, pg. 4

[xiii] Tesi queste sostenute dagli esponenti della seconda e terza generazione della Scuola di Francoforte, quali Jürgen Habermas e Axel Honnet. Sistematici sono stati i tentativi di indebolire la radicalità della filosofia morale di Adorno piegando l’interpretazione dei suoi testi all’ideologia social-liberale di cui sono propgunatori.

xiv Pierre Bourdieu, Ragioni pratiche, Il Mulino, 2009 e Meditazioni Pascaliane, Feltrinelli, 1998.

xv Theodor W. Adordno, Minima Moralia. Meditazione della vita offesa, aforisma 97, pg. 125.

xvi Theodor W. Adordno, Probleme der Moralphilosophie, Suhrkamp, 1997, pg, 261 in Laura Boella, Minima Moralia di Adorno. Etica e critica delle forme di vita. Appunti del corso di Filosofia Morale 2012-2013

xvii Laura Boella, Minima Moralia di Adorno. Etica e critica delle forme di vita. Appunti del corso di Filosofia Morale 2012-2013

xviii Theodor W. Adordno, Minima Moralia. Meditazione della vita offesa, pg. 35
xix T. W. Adorno, Il gergo dell’autenticità. Sull’ideologia tedesca, Bollati Boringhieri, Torino 1988.

xx Theodor W. Adordno, Minima Moralia. Meditazione della vita offesa, aforisma 99, pp. 181-184.

xxi Ibidem, aforisma 153, pg. 304

xxii Theodor W. Adordno, Minima Moralia. Meditazione della vita offesa, aforisma 6, pg. 19

xxiii Comparso nel numero 51 della rivista “Vie Nuove”, pubblicata nel 28 dicembre 1961.

 

 

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