Natale a scuola: a proposito di emarginati e offesi

di Stefano Plescan

0LYD1OGG4872-kMIG-U10602398154746fHD-700x394@LaStampa.itCirca duemila anni fa, all’epoca della nascita di Gesù Cristo, l’Italia si trova nel cuore dell’Impero romano. Non è una cosa da poco, perché i romani di quei tempi si sentono il popolo più religioso del mondo (onorano molti déi), il più tollerante (all’occorrenza includono anche divinità straniere nel loro pantheon) e il più pio (osservano una ritualità impeccabile tramandata da generazioni). Augusto, l’imperatore a quel tempo regnante, accentua ancor di più questa onnipresenza della religione, ponendo la sua figura al centro di numerose celebrazioni: egli è il tramite con gli déi, l’oggetto di un culto imperiale rivolto non a lui come ad una divinità, ma alle sue prerogative (pietas, virtus, genius). Pregarlo significa pregare gli déi di essere benevoli con l’imperatore e di conseguenza con tutti i suoi sudditi.

Un paio di secoli dopo, dei curiosi personaggi chiamati “cristiani” iniziano a uscire dalle catacombe e a fare proseliti nel bel mezzo di questo rigoglioso mondo pagano, e fin dal principio si tirano addosso una forte ostilità. Di cosa sono accusati, di preciso? Semplice: i cristiani odiano il genere umano. Può sembrare assurdo ma i cristiani, agli occhi di chi crede in molti déi e nelle pratiche religiose secolari cementate dalla tradizione, rifiutano tutti gli déi (positivi) adorati dalla gente, in nome di un non meglio specificato “Cristo”. Non accettano di equipararlo ad un Giove o ad un Ercole qualsiasi e di aggiungerlo alle divinità venerate dagli altri. «Se l’Impero è in crisi, è anche colpa loro!». Mi pare di sentirli i buoni sudditi dell’imperatore di turno: «i cristiani non seguono i riti della tradizione, non vogliono tutti quei simboli e quei i sacrifici che assicurano il nostro benessere». Oppure qualcuno, più sveglio degli altri, avrà aggiunto: «Basta con questa invasione, se ne tornino da dove sono venuti!».

Duemilaquindici anni dopo (anno più, anno meno), sempre in Italia, è sufficiente che un preside di scuola elementare ponga dei dubbi sulla legittimità di celebrare il Natale in una struttura statale, che accoglie bambini di tutte le origini e confessioni, perché si scateni il finimondo. Sit-in, polemiche, interventi di politicanti che brandiscono simboli religiosi come fossero clave. Il malcapitato preside, alla fine, deve dimettersi. Quello che davvero egli cercasse di ottenere con la sua iniziativa non è poi così importante (perché tra l’altro non interessa a nessuno degli urlatori), la cosa importante è il tono dei discorsi che sono stati fatti nei giorni seguenti. Si è detto che i simboli religiosi quali il Crocifisso, il presepe, il Natale sono parte integrante dell’identità italiana, che «a casa nostra» dobbiamo continuare a fare come si è sempre fatto e non «accontentare gli altri» che vengono «da fuori» e magari «a casa loro non sono tolleranti». Il nostro Augusto Presidente del Consiglio ha affermato: «Confronto e dialogo non vuol dire affogare le identità in un politicamente corretto indistinto e scipito. L’Italia intera, laici e cristiani, non rinuncerà mai al Natale. Con buona pace del preside di Rozzano». Si è detto che accantonare questi simboli della religione cristiana nella sua variante Cattolica romana (la confessione in cui senza dubbio si riconoscono la maggior parte degli italiani) equivarrebbe ad annacquare la «nostra identità» a vantaggio di un male inteso laicismo, se non peggio, di un islamismo radicale che dopo Parigi fa paura. Chi è contro il Natale?! Nessuno! Solo chi odia i nostri momenti di festa religiosa e familiare, il nostro modo di vivere insomma, può essere contro una festa così condivisa e comoda per tutti. La difesa del Natale, di quest’orgia consumistica, sembra fatta apposta per mobilitare le coscienze: buoni cristiani e personal shopper uniti nella lotta.

Ma a pensarci bene non è proprio così. Perché tutto il ragionamento si basa su delle forzature: sottili, nascoste, ma pur sempre forzature. Bisogna rendersi conto che Cattolicesimo è il valore di non proprio tutti gli italiani. Altri, minoranze che però sono in costante crescita, non possono accogliere i suoi simboli se non per conformismo o per inerzia. E questa non è una mancanza di rispetto da parte loro («vogliono cancellare il Natale!»): dobbiamo renderci conto che esistono altri valori, i quali non per questo sono meno positivi di quelli cattolici. La scuola pubblica non è proprio come «casa nostra». Per esempio, solo perché otto alunni su dieci tifano Milan, non posso addobbare le classi, come farei a casa mia, con i colori rossoneri se la squadra vince lo scudetto. Gli altri due alunni si sentirebbero esclusi, e questo senza che tifare Juventus voglia dire voler cancellare il Milan. La scuola pubblica, cioè “di tutti”, non può prendere posizione sulla squadra del cuore; figuriamoci su quale festa, quale simbolo è bello e buono e quale invece no: se nelle strutture pubbliche italiane dei cittadini italiani vengono esclusi, ecco: questo è un problema. Perciò, pensando ai nostri antichi romani, che nella loro ingenuità odiavano e perseguitavano i cristiani perché non facevano i sacrifici ai loro déi e quindi ai loro occhi erano malvagi, faremmo meglio a farci qualche domanda, se davvero non vogliamo che il Natale faccia la fine della festa di Giove e di Mercurio.

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