A Torino, la chiusura di Palazzo Nuovo ha compiuto un anno lo scorso aprile. Prima sono venuti i controlli decretati dalle autorità sanitarie e di pubblica sicurezza per stabilire il livello di contaminazione da amianto della struttura, indipendentemente – si potrebbe persino dire contro – la volontà della direzione universitaria, poi il blocco – di una settimana, all’inizio – di tutte le attività che avevano sede nel palazzone delle facoltà umanistiche. È passato oltre un anno e non se ne vede la fine, naturalmente. Le bonifiche costano e vanno per le lunghe e, sebbene Palazzo Nuovo sia stato parzialmente riaperto al pianterreno e al primo piano, numerosi servizi essenziali come gli uffici dei professori rimangono sparpagliati in sedi di fortuna tutt’attorno al palazzone.
Non solo gli studenti, i professori e il personale non docente, comunque, hanno patito le conseguenze della situazione «non perfetta» della sicurezza di Palazzo Nuovo. La chiusura ha contribuito in modo decisivo a strangolare una delle realtà più importanti del panorama del lavoro che ruotava attorno all’ateneo torinese, e quindi a colpire la cultura in tutta la città.
La libreria cooperativa CELID, che aveva una delle sue sedi principali nel seminterrato di Palazzo Nuovo, non ce l’ha fatta ad assorbire il danno economico – centinaia di migliaia di euro su un bilancio di un milione e mezzo – subìto da quando, nell’aprile 2015, le sono state spezzate le ali nell’abbraccio mortale con il palazzone contaminato: dalla sede di Palazzo Nuovo arrivava oltre la metà del fatturato, ed è rimasta completamente sigillata per oltre cinque mesi. E pensare che la cooperativa CELID era nata proprio lì, a Palazzo Nuovo, dall’idea di un collettivo di studenti realizzata quarant’anni fa. La scorsa primavera c’è stato l’inventario, la vendita dei libri a prezzi ribassati per coprire almeno in parte le perdite, poi il 28 giugno la CELID, prima della crisi una realtà con 40.000 soci, ha chiuso definitivamente.
Stefano Plescan