Il ruolo della Rivoluzione d’Ottobre e del marxismo nella lotta per la liberazione della donna

Intervento pronunciato dalla compagna Pierluigia Iannuzzi a Livorno il 21 ottobre 2017, in occasione dell’assemblea “1917:la Rivoluzione d’Ottobre. Cent’anni fa il nostro futuro”.

Care compagni e cari compagni,

con il mio intervento vi porto il saluto di tutte le compagne della commissione femminile di Fronte Popolare impegnata da tempo in una azione di definizione teorica della questione del femminismo rivoluzionario. Le compagne di Fronte Popolare desiderano dare il loro apporto alla discussione sull’attualità della Rivoluzione d’Ottobre e vogliono celebrare con voi il centenario della nostra Rivoluzione. Quella rivoluzione che per tutti i marxisti-leninisti rappresenta il momento in cui gli sfruttati della storia sono diventati protagonisti della storia emancipandosi attraverso la rivoluzione organizzata e guidata dal partito bolscevico. Quella rivoluzione che per le donne, doppiamente umiliate dalla storia e doppiamente sfruttate da una oppressione sia di classe che di genere, ha rappresentato il momento in cui la questione femminile, come questione sociale, è stata risolta in una prospettiva di classe. In quel momento la liberazione femminile si è effettivamente verificata solo perché la lotta di classe delle donne e degli uomini contro lo sfruttamento ha emancipato l’intera società.

Fu l’Unione Sovietica il primo paese al mondo a realizzare i diritti sociali fondamentali delle donne e degli uomini nel lavoro, nella vita quotidiana e nella famiglia. In pochi giorni la Rivoluzione d’Ottobre fece ottenere alle donne diritti che in Italia e in altri paesi arrivarono dopo decenni; la nostra Rivoluzione è stata il faro per la lotta delle donne di tutto il mondo. La scomparsa dell’URSS, al contrario, ha portato ad una regressione a livello internazionale. Questi sono i fatti indiscutibili.

E uno studio sul modo in cui il problema dell’oppressione della donna è stato trattato tra i marxisti rivoluzionari ci rivela immediatamente che fin dall’inizio il marxismo si è sempre preoccupato della questione femminile cercando la politica migliore per risolvere questo problema in un quadro della divisione della società in classi (e questo lo differenzia dalle correnti riformiste e borghesi). Le correnti che accusano il marxismo di non occuparsi della questione femminile sono contrarie all’analisi materialista dell’oppressione della donna. Il Manifesto del Partito Comunista fu il primo passo per l’effettiva emancipazione. Il Manifesto Comunista, scritto nel 1848 da Marx ed Engels, cominciava a mettere in discussione la famiglia borghese. In risposta a quelli che accusavano i comunisti di voler porre fine all’istituzione familiare borghese, nella quale la donna era sottomessa al ruolo di semplice strumento di riproduzione, Marx argomentava: “Su che base si fonda l’attuale famiglia borghese? Sul capitale, sul profitto individuale. La famiglia, nella sua forma acquisita, non esiste che per la borghesia; ma essa ha per corollario la completa assenza della famiglia e la prostituzione pubblica alle quali sono costretti i proletari. (…) Le declamazioni della borghesia sulla famiglia e l’educazione, sui dolci legami che uniscono il bambino ai suoi genitori, sono vieppiù nauseanti nella misura in cui la grande industria distrugge ogni legame familiare per il proletario e trasforma i bambini in semplici articoli di commercio, in semplici strumenti di lavoro. (…) In sua moglie il borghese non vede che uno strumento di riproduzione. Egli sente dire che gli strumenti di produzione devono essere di proprietà comune e arriva naturalmente alla conclusione che le mogli stesse condivideranno la sorte della socializzazione. Non suppone che si tratti appunto di sottrarre la donna al suo attuale ruolo di semplice strumento di riproduzione. Niente di più grottesco, del resto, che l’orrore ultra moralista che ispira ai nostri borghesi la presunta comunanza ufficiale delle donne che verrebbe professata dai comunisti. I comunisti non hanno bisogno di introdurla, essa è quasi sempre esistita. I nostri borghesi, non paghi di avere a loro disposizione le mogli e le figlie dei proletari, senza menzionare la prostituzione ufficiale, traggono il più grande piacere nel corrompere le loro rispettive spose. Il matrimonio borghese è, in realtà, la comunanza delle donne sposate. Tutt’al più si potrebbero quindi accusare i comunisti di voler contrapporre a una comunanza di donne ipocritamente dissimulata una comunanza franca e ufficiale. E’ del resto evidente che, con l’abolizione degli attuali rapporti di produzione, scomparirà la comunanza delle donne che da essi deriva, ovvero la prostituzione ufficiale e non ufficiale.” La linea sostenuta da Marx ed Engels è quella che segna la differenza tra il socialismo utopico e il socialismo scientifico. I socialisti utopisti pre-marxisti furono difensori dell’emancipazione della donna ma le loro teorie sulla famiglia e sulla donna si basavano su principi morali e desideri astratti e non sulla comprensione delle leggi storiche e della lotta di classe basata sulla crescente capacità produttiva dell’umanità. Il marxismo ha fornito, per la prima volta, una base materialista scientifica per la liberazione della donna. Ha spiegato le origini della sua oppressione, la sua relazione con un sistema di produzione basato sulla proprietà privata e su una società divisa tra una classe che possiede la ricchezza e una classe sfruttata produttrice di ricchezza. Il marxismo ha dimostrato il ruolo della famiglia all’interno di una società divisa in classi, ha dimostrato che è un contratto economico il cui ruolo è perpetuare il capitalismo e l’oppressione della donna. Il marxismo ha aperto il cammino alla liberazione della donna spiegando come l’abolizione della proprietà privata può fornire le basi materiali per trasferire all’insieme della società tutte le responsabilità sociali che ricadono sulla famiglia individuale, (cura dei bambini, degli anziani, dei malati, l’alimentazione, l’abbigliamento e l’educazione). Liberate da questi pesi, le donne hanno la possibilità di rompere con la servitù domestica e coltivare pienamente le loro capacità come membri creativi e produttivi della società, e non solamente come riproduttrici. La costrizione economica sulla quale poggia la famiglia nella società borghese sparirà e le relazioni umane saranno trasformate in relazioni libere, di persone libere. La Prima Internazionale fondata da Marx ed Engels nel 1864 rispondeva alla necessità pratica dei lavoratori europei di organizzarsi, poiché la borghesia stava unificando economicamente l’intero continente, ma fin dai suoi primi passi definì la sua posizione in rapporto alla causa dell’emancipazione femminile. Andando contro tutti i costumi dell’epoca l’Associazione Internazionale dei Lavoratori scelse una donna per il Consiglio Generale, la sindacalista inglese Henriette Law. Fu un passo importante e Marx riportò di aver ricevuto numerose lettere di donne che volevano affiliarsi all’Internazionale, al punto tale che egli stesso presentò personalmente al Consiglio Generale una mozione affinché si organizzassero delle sezioni speciali di lavoratrici nelle fabbriche e nelle zone industriali delle città dove c’erano grandi concentrazioni di lavoratori, mettendo comunque in allerta che ciò non doveva, in alcun modo, interferire con la costruzione di sezioni miste. Ma l’Internazionale non era un’organizzazione esclusivamente marxista e grande influenza aveva al suo interno il Partito Socialdemocratico Tedesco che fu il più grande partito socialista del periodo precedente la Prima Guerra mondiale. Questo partito era il risultato dell’unificazione, avvenuta nel 1875, di due gruppi: i sostenitori di Ferdinand Lassalle e i marxisti diretti da Wilhelm Liebknecht e August Bebel. Nonostante l’unificazione, si mantennero serie divergenze all’interno dell’organizzazione e la questione della donna rappresentò una di queste differenze. I lassalliani (sostenitori di Ferdinand Lassalle) si opponevano a rivendicare uguaglianza di diritti per la donna come parte del programma del partito. Sostenevano che le donne erano creature inferiori, il cui luogo predestinato era la casa. Secondo loro la vittoria del socialismo, che avrebbe assicurato al marito un salario adeguato a provvedere a tutti i bisogni della famiglia, le avrebbe fatte tornare al loro habitat naturale, perché non avrebbero più avuto la necessità di lavorare per un salario. L’ideologia secondo cui “il luogo della donna è la casa” ebbe come uno dei maggiori promotori il pensatore francese Proudhon, le cui idee si ripercossero nei sindacati e contemporaneamente tra i dirigenti della Prima Internazionale. Proudhon difendeva l’idea che le funzioni della donna fossero la procreazione e i lavori domestici. La donna che lavorava (fuori casa) rubava il lavoro all’uomo. Proudhon arrivò a proporre che il marito avesse diritto di vita e di morte sulla moglie che avesse disobbedito o avesse avuto un cattivo carattere e dimostrò, attraverso una relazione aritmetica, l’inferiorità del cervello femminile rispetto a quello maschile. E nel 1875 al Congresso di Gotha i socialisti tedeschi, sensibili alle idee di Proudhon, si opposero al gruppo marxista guidato da Bebel, che intendeva iscrivere nel programma del partito l’uguaglianza tra uomo e donna. Il Congresso ridusse al silenzio Bebel affermando che “le donne non sono pronte a esercitare i propri diritti”. Intanto nel 1866 Marx aveva presentato all’Internazionale Socialista una risoluzione a favore del lavoro dei bambini e delle donne, a condizione che fosse regolato per legge. Pensava che il lavoro non potesse essere separato dall’educazione e che fosse benefico per gli esseri umani. Nel Capitale Marx scrive che: “Se gli effetti immediati (del lavoro dei bambini e delle donne) sono terribili e ripugnanti, contemporaneamente esso contribuisce ad assegnare alle donne, ai giovani e ai bambini di entrambi i sessi una parte importante nel processo di produzione, al di fuori dell’ambiente domestico, nella creazione di nuove basi economiche necessarie per una forma più elevata di famiglia e di relazione tra i due sessi”. Pur se con altre parole, Engels affermò lo stesso nel suo celebre testo “Sull’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” in cui sostiene: “Sembrerebbe che l’emancipazione della donna, la sua eguaglianza di condizioni con l’uomo sia, e continui ad essere impossibile, tanto che la donna rimarrà esclusa dal lavoro sociale produttivo e dovrà limitarsi al lavoro privato domestico (…). La liberazione della donna ha come prima condizione il suo incorporamento nell’industria pubblica”. Fino alla metà del diciannovesimo secolo, l’idea che la donna dovesse rimanere a casa non si modificò, ma la realtà si dimostrò ancora una volta più forte: a dispetto di qualunque ideologia, la donna lavorava perché aveva bisogno di sopravvivere. Nel 1883 August Bebel pubblicò “La donna e il socialismo” che contribuì molto al dibattito sulla questione della donna. Intanto i primi storici, tra cui Bachofen e Morgan, svilupparono i primi studi affermando che la donna non fu sempre oppressa e che ci fu, in alcune società primitive, un periodo di matriarcato, ossia di predominanza della donna all’interno della tribù. Queste affermazioni suonarono talmente rivoluzionarie all’epoca da provocare un vero scandalo nelle società conservatrici. Marx ed Engels attribuirono una grande importanza a queste scoperte che incorporarono nei loro studi sull’apparire della proprietà privata dei mezzi di produzione. E’ in conformità a queste scoperte che Engels scrisse “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, pubblicato nel 1884, un’opera che servì d’incitamento perché il movimento rivoluzionario iniziasse a far propria la lotta per l’emancipazione della donna. Le scoperte fatte dall’antropologia del ventesimo secolo ci permettono oggi di arrivare alla conclusione che la monogamia non apparve insieme alla proprietà privata, come credeva Engels, ma prima di essa, con lo sfruttamento. La proprietà privata non fece che accentuare brutalmente l’oppressione della donna, e consolidarla. Tuttavia il gran merito di Engels consiste nell’aver associato l’apparire dell’oppressione della donna a una causa economica, e non naturale o psichica. Secondo lui la comparsa della monogamia non fu in nessun modo frutto dell’amore sessuale individuale, ma una pura convenzione. La famiglia monogamica fu la prima forma di famiglia ad avere come fondamento delle condizioni sociali e non naturali. Essa segnò soprattutto il trionfo della proprietà individuale sullo spontaneo comunismo primitivo. Engels scrisse: “Anche a casa, fu l’uomo a prendere in mano il timone; la donna fu degradata, asservita, divenne schiava del piacere dell’uomo e semplice strumento di riproduzione. Questa condizione avvilente della donna, tale a come appariva evidentemente presso i Greci del periodo eroico, e ancor di più nell’epoca classica, la schiaccia gradualmente, la riveste di false sembianze; ma questa condizione non è ancora stata del tutto soppressa”. Preponderanza dell’uomo nella famiglia e procreazione di figli che non potessero che essere i suoi, e destinati ad essere i suoi eredi. Per il resto il matrimonio era un peso, un dovere. Engels ricorda che: “Il matrimonio di coppia costituì un gran progresso storico, ma aprì contemporaneamente, a fianco della schiavitù e della proprietà privata, quest’epoca che si prolunga fino ai giorni nostri, nella quale ogni progresso segna allo stesso tempo un relativo passo indietro, poiché il benessere e lo sviluppo di alcuni vengono ottenuti attraverso la sofferenza e l’arretramento di altri. Il matrimonio di coppia costituisce la cellula della società civilizzata, nella quale possiamo già studiare la natura degli antagonismi e delle contraddizioni, che in essa si sviluppano pienamente”. E’ vero che le scoperte compiute dall’antropologia del ventesimo secolo rimisero in luce l’opera di Engels e ne corressero alcune imprecisioni, ma essa continua ad essere la base del programma marxista in rapporto alla donna, perché rigetta la concezione borghese secondo cui la donna nasce oppressa e la causa dell’oppressione è la sua naturale inferiorità nei confronti dell’uomo. Engels dimostra che la causa dell’oppressione della donna è fondamentalmente economica anziché storica e che, di conseguenza, è necessario trasformare la società per mettervi fine. Se la Prima Internazionale significò per il marxismo la conquista dell’avanguardia proletaria, la Seconda Internazionale del 1889 contribuì ad avvicinare milioni di lavoratori a queste concezioni. Fu l’Internazionale più caratteristica dell’era riformista, perché nacque nel periodo in cui vennero guadagnate la maggior parte delle concessioni, come le ferie, gli aumenti salariali, la legislazione sociale e del lavoro. Riguardo alla questione della donna, la lotta per l’ottenimento dei diritti democratici (uguaglianza politica, diritto di affiliazione ai partiti e diritto di voto) fu quella che più agitò la Seconda Internazionale. La lotta suffragista, che prese l’avvio negli Stati Uniti, fu la prima lotta femminista internazionalista. Raggruppò donne di molteplici paesi del mondo e incorporò i metodi tradizionali di lotta della classe operaia, quali marce di massa, assemblee, scioperi della fame e scontri brutali con la polizia, in occasione delle quali molte attiviste furono incarcerate e assassinate. In campo socialista, la lotta suffragista fu diretta dalla Seconda Internazionale, divisa tra riformisti, che difendevano il diritto di voto solo per gli uomini (in quanto supponevano che le donne avrebbero votato per i partiti cattolici reazionari) e i marxisti, difensori del suffragio universale. La dirigente politica femminista marxista più importante della Seconda Internazionale, così come della Terza, fu Clara Zetkin, membro dell’Spd. Al Congresso di Stuttgart, nel 1907, difese la posizione dei marxisti, che si rivelò vincente. La Seconda Internazionale lanciò una campagna internazionale a favore del suffragio femminile, con manifestazioni di massa in diversi paesi. Il partito più importante all’interno della Seconda Internazionale era l’Spd che, nel 1891, anno in cui l’ala di sinistra arrivò ad approvare un programma essenzialmente marxista, si mise ad esigere diritti politici per tutti, indipendentemente dal sesso di appartenenza, e l’abolizione di tutte le leggi che discriminavano la donna. Dopo che i lassaliani cessarono di esistere come tendenza all’interno dell’Spd, una nuova corrente riformista, che esercitava pressioni per l’adattamento allo status quo capitalista, fece la sua comparsa nel partito. Clara Zetkin, dell’ala della sinistra marxista, diresse il movimento socialista delle donne durante tutto il periodo precedente la guerra e combatté, all’interno dell’Spd, per lo sviluppo di una prospettiva rivoluzionaria della lotta per l’emancipazione della donna. Nel 1914, quando la maggioranza della direzione dell’Spd capitolò di fronte al capitalismo tedesco e votò per la difesa della “propria” borghesia nella Prima Guerra Mondiale, Clara Zetkin fu una dei rari dirigenti del partito, insieme a Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, a rompere con l’Spd e mantenere una posizione internazionalista rivoluzionaria. Negli anni dal 1890, l’Spd si concentrò inizialmente sull’organizzazione sindacale delle donne e ottenne alcune conquiste importanti. Nel 1896, su proposta di Clara Zetkin, il partito approvò una mozione per dare il via allo sviluppo di organizzazioni speciali per un’attività politica femminile più vasta. Oltre a lavorare per gli obbiettivi generali del partito, le compagne si concentrarono sulle bandiere del femminismo, come uguaglianza politica, a favore di una legislazione a protezione della donna lavoratrice, per l’educazione e la protezione dell’infanzia e l’educazione politica delle donne. Fino al 1908, quasi dappertutto in Germania, l’affiliazione a qualunque gruppo politico era proibita alle donne. Per ovviare a questa interdizione, l’Spd organizzò dozzine di “società per l’autoeducazione delle lavoratrici”, organizzazioni libere che, pur se parzialmente al di fuori dei confini del partito, erano ad esso strettamente legate. A partire dal 1900, vennero organizzate delle conferenze semestrali di donne socialiste, allo scopo di unificare questi gruppi e per dar loro una direzione. Dopo il 1908 le donne poterono affiliarsi legalmente all’Spd, e lo fecero all’interno delle organizzazioni speciali delle donne del partito. Continuarono a mantenere il loro giornale, Uguaglianza, diretto da Clara Zetkin. Fu uno dei giornali femministi più importanti al mondo, la cui diffusione nel 1912 superava le centomila copie. Tuttavia, malgrado questi avanzamenti, le rivendicazioni femministe non divennero realtà per la prima volta che in Russia, con la rivoluzione del 1917. La rivoluzione socialista in Russia significò contemporaneamente una rivoluzione nella situazione della donna in tutto il mondo. Per la prima volta un paese adottava delle misure concrete per raggiungere l’uguaglianza tra uomini e donne. La donna russa prese parte attivamente all’intero processo rivoluzionario, malgrado l’enorme peso della secolare e brutale oppressione che pesava sulle sue spalle, in particolare tra le contadine. Ma il vortice rivoluzionario spinse l’operaia russa in prima linea; già all’epoca rivestiva un ruolo decisivo nella produzione, concentrata nelle grandi fabbriche. Benché non sia sempre facile trovare delle citazioni, la storia della rivoluzione è piena di esempi dell’abnegazione, della tenacia e della rabbia dimostrate dalle lavoratrici russe nel corso di quelle giornate decisive. La rivoluzione di febbraio del 1917 (antefatto di quella decisiva di ottobre) iniziò nella Giornata Internazionale della Donna, con manifestazioni femminili di massa a Pietrogrado contro la miseria provocata dalla partecipazione della Russia alla Prima Guerra Mondiale. La guerra aveva spinto la donna russa sul mercato del lavoro e, nel 1917, un terzo della manodopera industriale di Pietrogrado era costituita da donne. Nel settore tessile della regione industriale centrale, questa percentuale si elevava al 50%. Le diverse tendenze politiche si disputavano assiduamente la militanza femminile. Sia i bolscevichi che i menscevichi stampavano dei giornali speciali per le lavoratrici, come Rabotnista, dei bolscevichi, e Golos Rabotnitsy dei menscevichi. I “socialrivoluzionari” (Sr), che combattevano per una democrazia borghese in Russia, proposero da parte loro la creazione di una “unione delle organizzazioni democratiche di donne”, che avrebbero dovuto unire sindacati e partiti sotto la bandiera di una repubblica democratica. Fu durante questo periodo che apparve la Lega per i Pari Diritti della Donna, che esigeva il diritto di voto per le donne e accompagnava la battaglia che queste conducevano in tutto il mondo per ottenere i loro diritti civili. Ma in Russia, con la rivoluzione socialista, le donne conquistarono molti più diritti democratici. Per la prima volta, un paese legiferò a favore dell’uguaglianza di salario femminile e maschile a parità di lavoro. Tuttavia, all’indomani della presa di potere dei soviet, la questione della donna si dovette confrontare duramente con la realtà. Nei fatti, fu la prima volta nella storia in cui questa questione passò dalla teoria alla pratica. In un paese come la Russia, arretrato dal punto di vista delle questioni morali e culturali, con un enorme carico di preconcetti radicati da secoli (cosa che caratterizza, in genere, i paesi principalmente agricoli), la questione della donna assunse, in questi difficili momenti per il giovane Stato Operaio, delle caratteristiche più complesse rispetto a molti altri aspetti relativi alla trasformazione verso il socialismo. Perciò Lenin, insieme a molti dirigenti donna, si consacrarono a “spiegare pazientemente” alle masse, soprattutto alle donne, quali erano i compiti generali del movimento operaio femminile della Repubblica sovietica, ma non attesero oltre a prendere le prime misure su questo terreno e modificare la situazione umiliante alla quale le donne russe erano sottoposte da secoli. Questi compiti rivestivano un duplice aspetto: 1. L’abolizione delle vecchie logiche che mettevano la donna in una situazione di ineguaglianza rispetto all’uomo. 2. La liberazione della donna dai compiti domestici, liberazione necessaria per un’economia collettiva alla quale avrebbe preso parte alle stesse condizioni degli uomini. Per quanto concerne il primo aspetto, lo Stato Operaio concretizzò, fin dai suoi primi mesi di esistenza, il cambiamento più radicale nella legislazione relativa alla donna. Furono abolite tutte le leggi che ponevano la donna in una situazione di ineguaglianza rispetto all’uomo, tra cui quelle relative al divorzio, ai figli naturali e alla corresponsione degli alimenti. Furono ugualmente aboliti tutti i privilegi legati alla proprietà, mantenuti nel diritto familiare a beneficio dell’uomo. La Russia sovietica nei suoi primi mesi d’esistenza fece per l’emancipazione della donna molto più che il più avanzato paese capitalista nel corso di ogni tempo. Furono introdotti dei decreti che sancivano la protezione legale per le donne e i bambini che lavoravano, l’assicurazione sociale e la parificazione dei diritti all’interno del matrimonio. Grazie all’azione politica dello Zhenodtel, il dipartimento femminile del Partito Bolscevico, le donne conquistarono il diritto all’aborto legale e gratuito negli ospedali statali. Ma la pratica dell’aborto non era incentivata, e chi percepiva del denaro per praticarlo veniva punito. La prostituzione e il suo sfruttamento furono descritti come “un crimine contro i legami tra compagni e contro la solidarietà”, ma lo Zhenodtel propose che non fossero previste pene legali per questo crimine. Si tentò di attaccare le cause della prostituzione migliorando le condizioni di vita e di lavoro delle donne ed ebbe luogo una vasta campagna contro i “residui della morale borghese”. La prima Costituzione della Repubblica sovietica, promulgata nel luglio del 1918, diede alla donna il diritto di votare e di essere votata per incarichi pubblici. Tuttavia l’uguaglianza davanti alla legge non corrispondeva ancora all’uguaglianza di fatto. Per la piena emancipazione della donna, per la sua effettiva uguaglianza con l’uomo, c’era bisogno di un’economia che la liberasse dal lavoro domestico e alla quale potesse prendere parte allo stesso modo dell’uomo. L’essenza del programma bolscevico per l’emancipazione della donna consisteva nella sua liberazione dal lavoro domestico, per mezzo della socializzazione dei compiti da lei svolti all’interno di casa e famiglia. Nel luglio del 1919, Lenin insisteva sul fatto che il ruolo della donna all’interno della famiglia costituiva la chiave di volta della sua oppressione: “Indipendentemente da tutte le leggi che emancipano la donna, ella continua ad essere una schiava, perché il lavoro domestico la opprime, la strangola, la degrada e la limita alla cucina e alla cura dei figli; ella spreca la sua forza in lavori improduttivi, senza prospettiva, che distruggono i nervi e la rendono idiota. E’ per questo motivo che l’emancipazione della donna, il vero comunismo, inizierà solamente quando sarà intrapresa una lotta senza quartiere, diretta dal proletariato, possessore del potere dello Stato, contro questa natura del lavoro domestico o, meglio, quando avrà luogo la totale trasformazione di questo lavoro in un’economia di grande scala.” Nel contesto russo dell’epoca, questa era la parte più difficile della costruzione del socialismo e che richiedeva più tempo per concretizzarsi. Lo Stato Operaio iniziò creando istituzioni quali mense e asili per liberare la donna dai gravami domestici. E furono le donne ad impegnarsi di più nell’organizzazione di tali istituti. Questi, strumenti per la liberazione della donna dalla sua condizione di schiavitù domestica, comparvero in tutti gli ambiti possibili. Malgrado ciò, il loro numero era insufficiente per rispondere a tutti i bisogni. In Russia c’era la guerra civile, lo Stato Operaio era attaccato dai suoi nemici, e le donne dovettero assumere insieme agli uomini i compiti di guerra a sua difesa. Molte di queste istituzioni funzionavano alla perfezione, ottenendo successo e dimostrando la necessità del loro mantenimento ed espansione. D’altro lato, i dirigenti sovietici, Lenin per primo, esortarono le donne a prendere parte sempre più alla gestione delle imprese pubbliche e all’amministrazione dello Stato. Ci furono esortazioni anche alla candidatura di donne a delegate dei soviet. Nel marzo del 1920, in un discorso in omaggio della Giornata Internazionale della Donna, Lenin si rivolse così alle donne russe: “Il capitalismo coniuga l’uguaglianza di pura facciata all’ineguaglianza economica e, di conseguenza, sociale. (…) e una delle più scioccanti manifestazioni di questa incongruenza (del capitalismo) è l’ineguaglianza tra donna e uomo. Nessuno Stato borghese, per quanto progressista, repubblicano, democratico sia, ha riconosciuto l’intera uguaglianza di diritti tra uomo e donna. La Repubblica Sovietica russa, per contro, ha cancellato in un colpo solo e senza eccezione alcuna tutte le tracce giuridiche dell’inferiorità della donna, e del pari ha assicurato in un colpo solo la parità completa della donna a livello di leggi”. Lenin ricorda che c’è l’abitudine di dire che il livello raggiunto da un popolo è caratterizzato dalla situazione giuridica della donna. Sotto questo punto di vista, solo la dittatura del proletariato, solo lo Stato socialista, possono raggiungere e raggiungono il più alto grado di cultura. Tuttavia ciò non è sufficiente. Il movimento operaio femminile russo non si accontentò di un’uguaglianza puramente formale e si assunse un compito lungo e difficile, perché l’uguaglianza esige una trasformazione radicale della tecnica e dei costumi sociali, e necessita di una battaglia per l’uguaglianza economica e sociale della donna, che si può raggiungere solo facendole prendere parte al lavoro sociale produttivo, liberandola dalla schiavitù domestica che è sempre improduttiva e la abbruttisce. La Terza Internazionale del 1919 nel suo programma, rispetto alla questione della donna, incorporò le esperienze sovietiche. Nel libro “Memorie di Lenin”, Clara Zetkin espose le posizioni di quest’ultimo sulla questione della donna, manifestate in occasione dei loro due incontri a Mosca nel 1920. Fu incaricata di elaborare la risoluzione sul lavoro della donna, che doveva essere presentata al Terzo Congresso dell’Internazionale, nel 1921, che fu discussa con Lenin. Inizialmente Lenin insistette sul fatto che la risoluzione avrebbe dovuto sottolineare “la connessione inseparabile tra la posizione umana e sociale della donna e la proprietà privata dei mezzi di produzione”. Per cambiare le condizioni di oppressione della donna in seno alla famiglia, i comunisti dovevano sforzarsi di unificare il movimento femminile con “la lotta della classe proletaria e la rivoluzione”. In merito alle questioni organizzative, la polemica che percorse il partito portò a chiedersi se le donne avessero dovuto o no essere organizzate separatamente. Su questo argomento, Lenin ricordò che: “Non vogliamo un’organizzazione separata di donne comuniste. Una comunista è membro del partito così come lo è il comunista. Essi hanno gli stessi diritti e doveri. (…) Il partito deve disporre degli organismi (gruppi di lavoro, commissioni, comitati, sezioni, poco importa il nome) con l’obbiettivo specifico di risvegliare le vaste masse femminili”. La risoluzione per il Terzo Congresso dell’Internazionale Comunista sarebbe stata molto importante. Essa, adottata in giugno del 1921, trattava aspetti politici e organizzativi per l’orientamento dell’Internazionale. In rapporto agli aspetti politici, la Tesi sul lavoro di propaganda tra le donne sottolineò la necessità della rivoluzione socialista per ottenere la liberazione della donna, e la necessità che i partiti comunisti conquistassero il sostegno delle masse femminili se volevano condurre la rivoluzione socialista alla vittoria. Nessuno dei due obbiettivi può essere ottenuto senza l’altro. Se i comunisti falliscono nel compito di mobilitare le masse femminili a fianco della rivoluzione, le forze reazionarie si sforzeranno di organizzarle contro di loro. La risoluzione afferma anche “che non ci sono delle questioni femminili particolari”. Dicendo questo, non intendeva dire che non ci sono problemi che interessano specialmente le donne e nemmeno che non esistano rivendicazioni particolari attorno alle quali le donne possono essere mobilitate. Significa solo che non ci sono problemi che preoccupano la donna che non siano alla stessa stregua una questione sociale più vasta, d’interesse vitale per il movimento rivoluzionario, per il quale devono combattere sia gli uomini che le donne. La risoluzione non fu diretta contro l’esigenza di portare avanti delle rivendicazioni specifiche per le donne, anzi si verificò precisamente l’opposto, nell’intento di spiegare ai lavoratori e alle lavoratrici più arretrati che tali preoccupazioni non potevano essere accantonate come “preoccupazioni femminili” senza importanza. La risoluzione condannava anche il femminismo borghese, in riferimento a quel settore del movimento femminista che era convinto che si potesse raggiungere l’emancipazione della donna riformando il sistema capitalista. Essa esortava le donne a rifiutare questo orientamento. Per quanto riguarda gli aspetti organizzativi, la risoluzione spiegava perché non poteva esserci un’organizzazione distinta per le donne nel partito e, d’altro lato, perché devono esserci degli organismi speciali del partito per lavorare tra le donne. Divenne obbligatorio, quasi come condizione per essere membro dell’Internazionale Comunista, che ciascuna sezione organizzasse una commissione di donne, struttura che avrebbe funzionato a tutti i livelli del partito, a partire dalla direzione nazionale fino alle sezioni o alle cellule. La risoluzione imponeva ai partiti di garantire che almeno una compagna avesse il compito permanente di dirigere il lavoro a livello nazionale. Creò inoltre un Segretariato Internazionale della donna che si occupasse di supervisionare il lavoro e convocare, ogni sei mesi, regolari conferenze di rappresentanti di tutte le sezioni per esaminare e coordinare la loro attività. Finalmente, la risoluzione trattò due tipi di azione concreta che potevano essere d’aiuto per mobilitare le donne in ogni parte del mondo. Essa propose manifestazioni e scioperi, conferenze pubbliche per organizzare le donne prive di partito, corsi, scuole di quadri, l’invio di membri del partito nelle fabbriche dove lavoravano un gran numero di donne, l’utilizzo del giornale di partito. Quale principale terreno d’azione furono presentati i sindacati e le associazioni professionali femminili. Stante il differente livello di sviluppo delle sezioni, questa risoluzione fu applicata nell’Internazionale in maniera molto diseguale. Al Quarto Congresso, alla fine del 1922, la linea essenziale della risoluzione del 1921 fu riaffermata. Il Congresso attirò l’attenzione sul fatto che alcune sezioni, non specificate, non avessero applicato le decisioni del congresso antecedente. Ottenne speciale menzione il lavoro effettivo svolto dalla sezione cinese, che aveva organizzato le donne secondo la direttiva marcata dal Terzo Congresso. L’Internazionale Comunista dava molta importanza al lavoro tra le donne oppresse dei paesi coloniali. Le concezioni marxiste sull’emancipazione della donna e il loro ruolo nella lotta per il socialismo furono trasposte in tesi e risoluzioni durante il Terzo Congresso dell’Internazionale Comunista, riunito nel 1921, prima quindi del periodo stalinista. Questo evento, d’importanza storica per il movimento socialista mondiale, tracciò un programma e un orientamento per il lavoro tra le donne che, per la sua chiarezza e coerenza ai principi del marxismo, a tutt’oggi non è stato superato da nessun’altra organizzazione operaia. È perciò che continua ad essere valido. Inizialmente, l’Internazionale Comunista riaffermò la posizione secondo cui la liberazione della donna dall’ingiustizia secolare, dalla schiavitù e dalla mancanza di uguaglianza di cui ella è vittima nel capitalismo, non sarà possibile che con la vittoria del comunismo. “Quello che il comunismo darà alla donna, non potrà mai esserle dato dal movimento femminista borghese. Finché esisterà il dominio del capitale e della proprietà privata, la liberazione della donna sarà impossibile”. La donna aveva appena acquisito il diritto di voto, e l’Internazionale mise in guardia che questo fatto, benché importante, non aveva soppresso la causa primordiale della sua servitù all’interno della famiglia e della società e che non aveva risolto il problema delle relazioni tra sessi. “La parità reale, e non formale, della donna sarà possibile solamente in un regime in cui la donna della classe operaia è proprietaria dei mezzi di produzione e di distribuzione, prendendo parte all’organizzazione (del lavoro) e alle medesime condizioni di tutti gli altri membri della classe operaia; ciò significa che la parità sarà realizzabile solo dopo la distruzione del sistema capitalista e la sua sostituzione con forme economiche comuniste”. Sulla questione della maternità, l’Internazionale non lasciò più trapelare dubbi sul fatto che, unicamente all’interno del comunismo, questa funzione naturale della donna non entrerà più in conflitto con gli obblighi sociali e non impedirà il suo lavoro produttivo. Rileva tuttavia che il comunismo è il fine ultimo di tutto il proletariato, “è per questo che la lotta della donna e dell’uomo deve essere condotta in maniera inseparabile”. La cosa più importante è dunque che quella che fu una delle organizzazioni internazionali più attive per la causa dei lavoratori, conferma i principi fondamentali del marxismo, secondo i quali non esistono problemi specificamente femminili e secondo cui la donna proletaria deve mantenersi collegata alla sua classe, e non unirsi alla donna borghese. “Tutte le relazioni dei lavoratori con il femminismo borghese e le alleanze di classe indeboliscono le forze del proletariato e rallentano la rivoluzione sociale, impedendo così la realizzazione del comunismo e la liberazione della donna”. Infine, l’Internazionale Comunista rinforza il principio secondo cui il comunismo sarà raggiunto solo tramite l’unione di tutti gli sfruttati e non con l’unione delle forze femminili delle due classi opposte. Termina con l’esortazione rivolta a tutte le compagne dei lavoratori a partecipare attivamente e direttamente alle azioni di massa, sia nel quadro nazionale che su scala internazionale.

Ma chiariti i termini teorici e l’evoluzione storica della questione femminile all’intermo del marxismo, non si può non evidenziare quanto la storia dimostra con fatti certi: quanto il marxismo e la conseguente rivoluzione bolscevica seppero realizzare e quanto i paesi capitalisti ancora non possono né vogliono realizzare. Un rapido confronto e qualche dato saranno sufficienti. La realtà russa del 1917 era di estrema arretratezza con enormi disparità. La Russia zarista era un paese con una struttura economia rurale di sussistenza e una organizzazione sociale ancora feudale. Nonostante l’abolizione della servitù della gleba (che per secoli era stata funzionale alla bassa densità della popolazione rispetto ad un territorio enorme e quindi funzionale alle necessità della nobiltà parassitaria di vincolare i contadini alla terra), il ruolo della donna era rimasto di totale subordinazione e le donne, in alcune zone della Russia asiatica, facevano parte addirittura del patrimonio del marito. I diritti delle donne e dei bambini furono fin da subito parte integrante del programma del partito bolscevico e Lenin, nel Programma del Partito Operaio Socialdemocratico della Russia, rivendicò il suffragio universale, uguale diritto di lavoro, istruzione universale e gratuita. Dopo la rivoluzione di febbraio, a Marzo 1917, si tenne il primo Congresso delle donne lavoratrici. A Novembre 1917 il Decreto della pace e della Terra stabilì che l’uso della terra era concesso a tutti i cittadini, senza distinzione di sesso; inoltre vennero approvate le 8 ore di lavoro giornaliero, le pause lavorative, il giorno di riposo fisso settimanale, il diritto alle ferie retribuite, il divieto di lavoro al di sotto dei 14 anni, la sicurezza sociale con protezione per le malattie, la vecchiaia, il parto, la vedovanza. Il 13 novembre 1917 il primo ministro donna al mondo Alexandra Kollontai divenne Commissario del Popolo per la Sicurezza Sociale e, nel 1922, divenne la prima ambasciatrice donna al mondo. A Dicembre 1917 venne introdotto il matrimonio civile (l’unico riconosciuto dalla legge) e venne legalizzato il divorzio. Un anno dopo, a Dicembre 1918 Codice del Lavoro abolì tutte le discriminazioni e stabilì la parità di retribuzione; fu vietato il licenziamento delle donne in gravidanza, vennero garantiti quattro mesi di gravidanza e congedo di maternità, con stipendio pieno, con la possibilità di soggiornare fino a un anno a casa con il bambino con il lavoro salvaguardato, lavoro più leggero al termine della gravidanza. Nel 1919 Lenin potè rivendicare che in soli due anni l’URSS, nonostante lo stato iniziale di arretratezza, aveva fatto per la liberazione della donna più di quanto avessero fatto in 130 anni tutte le repubbliche progressiste e democratiche del mondo. Nel 1920 il governo sovietico legalizzò l’aborto. Con la rivoluzione fu promossa l’idea che l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro era l’elemento chiave per la loro emancipazione. In URSS il numero delle donne lavoratrici aumentò progressivamente e nel 1975 le donne erano il 51% dei lavoratori. Prima della Rivoluzione d’Ottobre il tasso di analfabetismo femminile era l’83%; nel 1986, le donne erano il 59% delle persone con istruzione superiore e secondaria specializzata, circa il 50% degli ingegneri industriali, il 30% dei giudici, il 75% dei medici. La prima donna nello spazio fu nel 1963 la sovietica Olga Tershkova. Per quanto riguarda la partecipazione politica, nel 1974 il 31% dei componenti del Soviet Supremo era costituito da donne e il 47% nei Soviet locali (nelle prime elezioni chiamate “libere” dopo la sconfitta del socialismo nei paesi dell’ex URSS la presenza delle donne elette nei parlamenti nazionali fu compresa tra il 3,5 e il 20%). Ma le donne sovietiche parteciparono anche in prima persona alla guerra. Il servizio militare fu aperto alle donne nel 1939 e più di 800.000 donne parteciparono direttamente ad azioni di battaglia e di guerriglia e furono la metà dei medici distaccati al fronte. Sono famosi i reggimenti aerei con esclusivamente tiratori di sesso femminile (in particolare il 46esimo Reggimento di bombardamento in picchiata che cominciò ad operare nel 1941 e che, per la sua efficacia, si guadagnò da parte dell’esercito nazista l’epiteto di “Streghe della notte”).

Cosa succedeva intanto in Italia? Alla fine della prima guerra mondiale il Partito Liberale, nella sua forma organizzativa ottocentesca di partito elitario, si rivelava ormai incapace di rispondere efficacemente alle paure della sua classe di riferimento (la borghesia dei pescecani di guerra); la gretta e parassitaria borghesia italiana chiedeva la repressione delle istanze delle masse e dei nuovi partiti di massa che andavano emergendo a seguita della guerra e della Rivoluzione bolscevica. Il Partito Liberale tentò un’operazione di apertura attraverso una serie di provvedimenti legislativi: nel 1919 legge elettorale proporzionale (ma ancora una volta le donne rimanevano escluse dal voto) e approvazione della legge sulla capacità giuridica della donna (che sancì anche l’ammissione delle donne ad esercitare tutte le professioni). Nel 1923 Mussolini prometteva il voto alle donne e nel 1925 concedesse il voto amministrativo ad alcune categorie di donne ma la riforma podestarile del 1926 annullò tutto. Nel 1926 le donne, per Regio Decreto, vennero escluse dall’insegnamento di italiano, latino, greco, storia e filosofia nei licei. Nel 1927 Mussolini lanciò la campagna demografica e iniziò a premiare le donne-madri che avrebbero fornito alla nazione il milione di baionette per la seconda guerra mondiale. Nel 1930 il Codice penale Rocco sancì che l’aborto diventava reato contro l’integrità e la sanità della stirpe. Nonostante il coraggio dimostrato, la maggior parte delle partigiane ricoprirono un ruolo spesso subalterno alle necessità degli uomini combattenti; rifornivano gli uomini con armi e cibo ma in pochi casi imbracciarono il fucile. Ancora nel 1945, a guerra finita, il decreto legislativo che sancisce il suffragio universale anche femminile non prevede l’eleggibilità delle donne . Solo nel 1946, con nuovo decreto, è prevista l’eleggibilità delle donne che abbiano compiuto 25 anni. Bisognerà arrivare al 1960, con un accordo fra Sindacati e Confindustria, per ottenere la parità di salario fra donna e uomo. Intanto nel 1963 la prima donna nello spazio è la sovietica Olga Tershkova. In Italia si arriverà solo nel 1969 alla legge sul divorzio e solo nel 1978 alla 194 ossia la legge che legalizza l’aborto. E finalmente nel 1995 viene approvata la legge sulla violenza sessuale per poi constatare nel 2016 che le donne guadagnano il 30% di retribuzione in meno a parità di mansioni con i lavoratori uomini.

E dopo la fine dell’URSS cosa è cambiato? Molto è cambiato. In un quadro di generale regressione, ovunque la questione femminile diventa una questione puramente di diritti civili e ovunque gli enormi passi in avanti fatti nei due anni successivi alla rivoluzione bolscevica vengono attaccati e cancellati. Basti un esempio riferito dal CC del Partito Comunista della Polonia (KPP): “Le forze di destra in Polonia hanno recentemente tentato di modificare le norme sull’aborto, continuando a reprimere le donne, come han fatto fin dalla controrivoluzione. Quali erano i diritti delle donne quando in Polonia esisteva il socialismo, prima, quindi, della controrivoluzione? Fino al 1989, nella Polonia del Popolo, le donne erano indipendenti, godevano di eguaglianza sociale ed economica, avevano un lavoro, una partecipazione attiva nella costruzione del Paese e l’accesso ad un’istruzione gratuita a tutti i livelli. Il primo periodo dopo la Seconda Guerra Mondiale è stato difficile. A causa dell’arretratezza economica del Paese prima della guerra e dei disastri causati dalla medesima, si è registrato un aumento di offerta di lavoro femminile. La richiesta era così alta anche perché la maggior parte dei sei milioni di vittime di guerra erano uomini in età produttiva. Le donne, perciò, assunsero la maggior parte di responsabilità in molti settori, anche nelle industrie. In questo modo, le donne acquisirono nuove abilità nelle professioni da sempre considerate “appannaggio maschile”. Grazie alla meccanizzazione dei vari rami produttivi, tipicamente basati sul lavoro fisico, poterono diventare addette macchina. In aree tradizionali come l’agricoltura, il lavoro delle donne è stato promosso con slogan in loro favore, rappresentando donne su trattori. In queste condizioni la famiglia era solo una delle tante attività e le donne erano più libere di scegliere quale tipo di famiglia preferire. L’aborto era legale secondo la legge dell’aprile 1956. Questa affermava che, per proteggere le donne dalle conseguenze di aborti effettuati in condizioni non sicure e da persone senza conoscenze mediche, solo ai medici qualificati era permesso eseguire un aborto. L’aborto era legale in caso di pericoli di salute durante la gravidanza, se la gravidanza fosse stata una conseguenza di uno stupro o se la donna incinta vivesse in difficili condizioni economiche. Dopo il 1989 le donne divennero le prime vittime della trasformazione. Sono state le prime ad essere licenziate in seguito alla riduzione del lavoro, soprattutto per eludere i diritti legati al congedo per maternità e altri diritti associati all’infanzia. Allo stesso tempo, la chiesa cattolica ha iniziato a promuovere un modello sociale conservatore, aiutata dal concordato tra la Polonia e il Vaticano, dando alla chiesa molti privilegi. Dopo la caduta dell’URSS la legge sull’aborto è stata modificata nel 1993. Consente l’aborto in caso di stupro, deformazioni genetiche del feto e minaccia per la salute della madre. Fu presentata come un “compromesso”, ma in realtà venne dettata dalla chiesa. Ora i conservatori hanno cercato di imporre la nuova legge, liquidando anche queste eccezioni. E’ stato utilizzato un meccanismo che consente alla Chiesa di presentare proposte di legge a partire da iniziative sociali. Tale proposta ha provocato una protesta ampia e massiccia, con la partecipazione di oltre 100mila persone. Per la prima volta, migliaia di persone hanno manifestato non solo nelle grandi città, ma anche nelle piccole. La manifestazione è stata chiamata “protesta nera”, perché i partecipanti si sono vestiti di nero. Il partito “Legge e Giustizia” (partito nazional-conservatore polacco) ha quindi abbandonato il sostegno al divieto totale dell’aborto, ma appena una settimana dopo il suo leader, Jarosław Kaczyński, ha rilasciato una dichiarazione secondo cui le donne dovrebbero dare alla luce anche un neonato deforme, senza possibilità di sopravvivenza, al solo fine di battezzarlo e seppellirlo. I dati mostrano che l’attuale legge costringe le donne ad andare all’estero per abortire e le donne povere della classe operaia, che non hanno i mezzi finanziari necessari, abortiscono in condizioni insicure. Decenni di propaganda capitalista hanno notevolmente diminuito la consapevolezza di classe. Ci sono molti problemi sociali che colpiscono soprattutto le donne. Pochi anni fa l’età pensionabile per le donne è stata innalzata di 7 anni; di 2 anni per gli uomini. Simile è la questione per quanto riguarda l’accesso all’istruzione e all’assistenza pediatrica. Le donne della classe operaia devono assentarsi dal lavoro a causa della mancanza di asili pubblici e della mancanza di fondi per pagare le strutture private. Inoltre le donne di solito guadagnano molto meno degli uomini a parità di lavoro. Ciò significa che l’oppressione economica è per lo più orientata verso le donne della classe operaia. Dovranno imparare che protestare solo contro il divieto di abortire non è sufficiente. Il nostro approccio da comunisti alle questioni sociali è associato a una prospettiva di classe. I comunisti devono ricordare che il divieto all’aborto ha i suoi legami diretti con gli antagonismi di classe, nonché con gli aspetti sociali. La lotta per il diritto all’aborto deve essere collegata con la lotta per l’istruzione, l’assistenza sanitaria o l’aiuto alle persone disabili. Ci opponiamo alle tesi dei media liberali sulla necessità di una “coalizione democratica” di tutte le forze che si oppongono al conservatorismo. Molti liberali sono anche responsabili dell’attuale situazione, dando privilegi alla Chiesa cattolica e sostenendo “il compromesso sull’aborto”. Hanno creato situazioni in cui le donne vengono sfruttate e maltrattate.

Questi sono i fatti che tutti i marxisti-leninisti devono conoscere, analizzare, saper interpretare con le categorie che Marx, attraverso il materialismo dialettico, ci ha dato.

Pubblicizzare le conquiste delle donne nel contesto della Rivoluzione d’Ottobre non ha solo interesse storico. Conoscere i diritti ottenuti e la lotta condotta serve per approfondire e valutare gli aspetti chiave di questi successi, come ad esempio la preparazione delle forze di classe e la questione dello Stato. Perché anche per quanto riguarda l’emancipazione femminile, il socialismo è davvero una esigenza del presente e del futuro.

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