Quell’ideologia individualista che non ci attrezza contro il virus

L’emergenza coronavirus ha portato in luce con inedita chiarezza le contraddizioni del modello sociale imposto dalla finanziarizzazione del capitale e dal neoliberismo. Allo scopo di contribuire ad alimentare il dibattito in merito, pubblicheremo una serie di testi sul tema.

Cominciamo con una riflessione del compagno Guido Salza della segreteria centrale di Fronte Popolare.

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Ormai sembra chiaro agli studiosi di come il nostro substrato genetico, risultato dell’evoluzione, sia stato selezionato per favorire comportamenti altruistici. Questo cozza violentemente con il senso comune della “sopravvivenza del più forte” attorno alla teoria di Darwin, o al pensiero alla “homo homini lupus” hobbesiano.

Al contrario, i comportamenti altruistici, sebbene impongano un costo a livello individuale, comportano benefici inestimabili per la sopravvivenza del gruppo. Per questo sembra che proviamo letteralmente piacere chimico nel punire i comportamenti antisociali (i cosiddetti “free-riders”, cioè coloro che si approfittano dei comportamenti altruistici). Solo questo schema genetico-culturale ha permesso alle piccole bande di umani nel Neolitico di sopravvivere alla pressione di altri gruppi (umani o animali), ed è stata poi la base per la nostra tendenza a cooperare in gruppi extra-famigliari.

Questa concezione dei meccanismi evoluzionistici, che identifica come centrale la pressione evolutiva sul gruppo e non sull’individuo, sta trovando sempre più conferme sperimentali, etnografiche e biologiche. Le interazioni umane, quando studiate in ambienti controllati (laboratori), risultano essere molto distanti dal modello di attore economico egoista. Noi umani cooperiamo e siamo altruisti, soprattutto se l’atteggiamento è reciproco e c’è la possibilità di punire chi non coopera. Questa tesi trova ulteriori conferme, per fare un altro esempio, in pratiche di divisione del cibo tra tribù di cacciatori-raccoglitori in Asia o nelle Americhe, pratiche che sono incentrate sulla possibilità di punire i free-riders. La cooperazione è motore importante non solo tra gli esseri umani, e anche molte specie di altri esseri viventi sopravvivono grazie al mutuo soccorso. Dobbiamo ringraziare le intuizioni pionieristiche di un anarchico geniale come il russo Kropotkin se la comunità scientifica ha iniziato a lavorare in questo senso.

Ma veniamo a noi. Rispetto ai nostri antenati che scorrazzavano per le praterie neolitiche, che si contendevano le risorse con altre specie e che cooperavano per superare le enormi avversità di un ambiente ostile, viene da pensare che in fondo l’Antropocene non ci ponga davanti a sfide molto diverse. Il pericolo di guerre nucleari, il disastro climatico, la fame, le migrazioni, le pandemie: tutto ciò ci mette sotto pressione come umanità.

Ma allora, se è una sfida che abbiamo già affrontato con successo, perché ci giungiamo così impreparati? D’altronde condividiamo praticamente tutto il DNA con i nostri antenati. La verità è che, al di là dei fattori di scala, l’unica sostanziale differenza tra noi e un cacciatore-raccoglitore del neolitico è di tipo culturale.

Per questo la vera minaccia per l’umanità dell’Antropocene è culturale, e si cela dietro all’ideologia di spietato individualismo con la quale abbiamo inaugurato il nostro ingresso nella modernità; di cui si è nutrito il capitalismo da oltre un secolo e mezzo.

L’ideologia individualista, che ci è entrata fin dentro le ossa, ci dipinge come singoli calcolatori razionali di costi-benefici che si muovono in un vuoto sociale di thatcheriana memoria. Le monadi dell’economia neoclassica di cui si prendeva gioco Marx.

Basta guardare la reazione dei poteri capitalisti al coronavirus. In questo drammatico quadro, il profitto privato vuole socializzare le perdite, anche a scapito del ventaglio di risposte possibili alla epidemia. Sono da leggere in questa ottica le resistenze a tutelare la salute dei cittadini e, in particolar modo, delle lavoratrici e dei lavoratori nei settori produttivi chiave. Ad ogni nuovo focolaio, ad ogni nuovo paese colpito, le retoriche minimizzanti sono sempre le stesse. E pure gli studi che le varie cancellerie commissionano rispondono a domande terrificanti: “quante centinaia di migliaia morti ci aspettiamo se non prendiamo misure pubbliche?”

Siamo, insomma, culturalmente inermi di fronte alle grandi sfide di sopravvivenza (come specie) che affrontiamo nel presente, coronavirus incluso. L’unica soluzione è quella di ritrovare le nostre radici prettamente umane, cioè di società che promuovono l’empatia, tutelano i comportamenti altruistici, e puniscono con decisione quelli approfittatori. Riconoscere le nostre radici come specie non vuol dire tornare nelle caverne, ma anzi guardare ad un futuro possibile oltre le barbarie dell’attuale organizzazione sociale. Vuol dire fare un passo in avanti nel lungo e affascinante cammino dell’evoluzione.

La speranza è che, quando il virus sarà stato sconfitto, emergerà chiara e forte una volontà collettiva di intervento sulle dinamiche sociali, economiche, politiche. E allora, forse, le lavoratrici e i lavoratori del mondo, ancora una volta, torneranno sul palcoscenico della storia, per decidere dei loro bisogni collettivi, per punire chi vuole campare sul loro lavoro. Noi saremo al loro fianco.

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