di Alessio Arena
«L’Italia ha deciso di dare il proprio sostegno alla Risoluzione che attribuisce alla Palestina lo status di Stato non membro Osservatore Permanente all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite». Comincia così il comunicato ufficiale con cui il governo Monti ha annunciato il voto favorevole alla richiesta dell’Autorità Nazionale Palestinese di essere riconosciuta come facente parte della comunità internazionale, ancorché non a pieno titolo. Un comunicato che ha rotto gli indugi e contraddetto la posizione astensionista verso cui il nostro paese sembrava avviato.
Una buona notizia, dunque, per il presidente Abbas e l’ANP, che vedono prendere corpo la certezza dell’accoglimento della loro richiesta, sulla quale il voto è previsto a circa un’ora dalla pubblicazione di queste righe. Ma a noi italiani cosa dice il comunicato del governo, circa la politica che il nostro paese intende portare avanti sulla questione palestinese e, più in generale, sulla pace in medio oriente?
Nel corso dell’ultimo mese abbiamo assistito, a fronte della sanguinosa e ingiustificabile aggressione militare israeliana contro la striscia di Gaza, alla vergognosa solidarietà manifestata a più riprese dalle più alte cariche dello Stato a Israele nella lotta contro il «terrorismo». Un’umiliazione per tutti gli italiani progressisti, per tutti coloro che credono nell’autodeterminazione e nell’eguaglianza tra gli uomini e i popoli come solo strumento per superare le controversie, mettere fine a ogni spargimento di sangue e fare infine arretrare il cancro della guerra che dilaga in tutto il mondo. Un’umiliazione, perché soprattutto per un popolo come il nostro, che tanto a lungo ha dovuto lottare per unirsi e rendersi indipendente, per poi ritrovarsi con uno Stato unitario classista e colonialista e con centotredici basi e installazioni militari straniere in casa, che le sue istituzioni possano qualificare come «terrorismo» il ricorso alla lotta armata da parte delle organizzazioni combattenti palestinesi contro un occupante tanto potente, violento e determinato come Israele significa uccidere una seconda volta Carlo Pisacane, dileggiare come un’accozzaglia di tagliagole i garibaldini, strappare di mano al Balilla il suo sasso (già, anche noi abbiamo avuto la nostra intifada), schierarsi con gli oppressori nazifascisti nel definire «banditi» i nostri partigiani. E che a dar voce alla solidarietà con Israele sia stato per primo proprio il Presidente della Repubblica, proprio quel Giorgio Napolitano che proviene dalle fila del Partito comunista, aggiunge alla vergogna altra vergogna, umilia la nostra Storia e la nostra Costituzione antifascista già trasformata in lettera morta, nel suo contenuto riguardante la politica internazionale, dalla nostra adesione alla NATO e dalla partecipazione alle sue criminali imprese di guerra.
Ora il governo si pronuncia per il sì all’ingresso della Palestina nell’ONU come «Stato non membro Osservatore Permanente all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite». Un successo per l’ANP, senza dubbio, ma quali sono le condizioni dell’assenso italiano? « l’Italia, in coordinamento con altri partner europei, ha in parallelo chiesto al Presidente Abbas di accettare il riavvio immediato dei negoziati di pace senza precondizioni e di astenersi dall’utilizzare l’odierno voto dell’Assemblea Generale per ottenere l’accesso ad altre Agenzie Specializzate delle Nazioni Unite, per adire la Corte Penale Internazionale o per farne un uso retroattivo». In altre parole, l’Italia permette ai palestinesi di entrare nel palazzo di vetro purché lo facciano a capo chino, senza pretendere di sviluppare nessuna partecipazione diretta alla vita della comunità internazionale, e soprattutto – il comunicato del nostro governo lo precisa con cura – senza richiedere a istituzioni come la Corte Penale Internazionale, preposte a giudicare sui crimini di guerra e contro l’umanità, qualunque forma di tutela per i diritti umani della popolazione palestinese. Chi scrive non ha mai creduto nella CPI e nel suo ruolo, così intriso di ipocrisia e così manifestamente subalterno alle politiche imperialiste delle potenze atlantiche, ma nondimeno non ci si può impedire di constatare con quanto zelo ci si impegni, a Roma come presso le altre cancellerie occidentali, per evitare in qualunque modo che un giocattolo pensato per servire da strumento di egemonia planetaria all’imperialismo mostri risvolti controproducenti, come il mostro che si ribella al dottor Frankenstein che lo ha portato in vita.
Rispondendo implicitamente a iniziative quali quella assunta dalla Bolivia di Evo Morales, che proprio alla CPI aveva deferito, nelle scorse settimane, le gerarchie israeliane per i crimini commessi durante l’ultima aggressione a Gaza, l’esecutivo guidato da Mario Monti precisa: «A Netanyahu il Presidente, nel ribadire che questa decisione non implica nessun allontanamento dalla forte e tradizionale amicizia nei confronti di Israele, ha garantito il fermo impegno italiano ad evitare qualsiasi strumentalizzazione che possa portare indebitamente Israele, che ha diritto a garantire la propria sicurezza, di fronte alla Corte Penale Internazionale». Le iniziative militari di Tel Aviv sono insomma giustificate e sostenute dall’Italia, che si impegna internazionalmente a inibire e ostacolare qualunque tentativo di farle oggetto non solo di condanna, ma finanche d’indagine da parte di chicchessia.
Fin qui la posizione dell’Italia sul problema contingente del pronunciamento in merito all’ingresso della Palestina come osservatore alle Nazioni Unite. Si potrebbe dire «meglio di niente», ed effettivamente tiriamo un respiro di sollievo all’idea di non dovere sopportare, oltre alla vergogna di essere cittadini di un paese le cui istituzioni, nei tragici giorni trascorsi dell’aggressione a Gaza, si sono schierate con gli oppressori e contro gli oppressi, anche quella di vedere quelle stesse istituzioni muoversi per legittimare e avallare formalmente l’oppressione con un voto in sede internazionale.
Resta da analizzare, però, il problema di fondo: quale posizione assume l’Italia circa il futuro del medio oriente e della lotta di liberazione dei palestinesi?
«[…] il Presidente Monti ha nell’occasione manifestato la convinzione che l’assetto finale si possa basare sul principio dei due Stati per due popoli». Con queste parole, il governo italiano prende posizione in un dibattito complesso e intricato che divide coloro i quali pensano che la soluzione duratura del conflitto israelo-palestinese possa venire dalla costituzione di due Stati indipendenti (quindi in definitiva dalla creazione e dal pieno riconoscimento di uno Stato palestinese, perché Israele esiste già), e chi ritiene invece che nella regione dovrebbe sorgere un unico Stato, laico e democratico, con libertà e giustizia per tutti. La questione, posta nei termini in cui l’abbiamo esposta, è assai semplificata e riassunta, e sin da subito ci scusiamo con i lettori se le nostre considerazioni risulteranno a conti fatti generiche. Ad ogni modo, la soluzione preconizzata dal nostro governo è quella dei «due popoli e due Stati», e sarà a questa che dedicheremo il finale del nostro contributo.
A prima vista, chiedere che si stabilizzino nella regione due Stati indipendenti che si riconoscano reciprocamente, può sembrare equilibrato e di buon senso. Anzi, si potrebbe giungere a credere che sia l’unica via praticabile. Purtroppo la storia degli ultimi sette decenni ci consegna una situazione davvero troppo intricata per pensare di risolverla tagliandone il «nodo gordiano» con un fendente di spada che divida il territorio di uno Stato da quello dell’altro. Tra le complicazioni: 1- l’occupazione perdurante dei territori palestinesi dopo la guerra dei sei giorni del 1967; 2- la politica di colonizzazione della terra palestinese da parte israeliana; 3- il rifiuto israeliano di permettere il rientro dei profughi palestinesi deportati in massa ed espulsi dalla loro terra al momento della costituzione dello Stato d’Israele nel 1948. Questioni cui molta letteratura è stata dedicata e che ci siamo limitati a richiamare per rammentare quanto profonda sia la mescolanza risultante da sette decenni di guerre, deportazioni, colonizzazioni, furti, massacri e omicidi perpetrati da Israele nell’esercizio del suo «diritto di difesa», da Napolitano e Monti così veementemente e convintamente difeso.
Quale soluzione propone il governo tecnico (che però, lo ricordiamo, gode l’appoggio dell’88% del Parlamento) per definire infine la questione palestinese? Monti propone la creazione di uno «Stato palestinese che sia patria del popolo palestinese», affiancato allo «Stato d’Israele come Stato ebraico, riconoscendone la legittima aspirazione quale patria del popolo ebraico». Traducendo, la proposta italiana consiste in un progetto di segregazione etnica e razziale, in virtù del quale separare ciò che è arabo da ciò che ebreo, facendo seguito al riconoscimento del «carattere ebraico dello Stato d’Israele» già reiterato negli ultimi decenni da governi tanto di centrodestra quanto di centrosinistra (memorabile il fuorionda del 2007 di Romano Prodi a Tel Aviv, laddove si può assistere sgomenti alla scena dell’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert intento a dettare all’omologo italiano le parole da pronunciare in proposito nella conferenza stampa ufficiale).
Israele come Stato ebraico, dunque, e come patria per gli ebrei israeliani ma non solo. A noi che riteniamo gli ebrei italiani cittadini italiani di fede e cultura ebraica, e così anche gli ebrei di qualunque altro paese cittadini delle nazioni in cui sono nati loro e tutti i loro antenati da migliaia di anni in qua, dunque titolari di pari diritti e doveri entro le comunità nazionali di cui essi fanno integralmente parte e che hanno contribuito a costruire, questa visione tipicamente sionista della questione ebraica fa accapponare la pelle. Tanto più se consideriamo che tra gli stessi cittadini israeliani circa un quinto sono arabi musulmani e che essi vivono in una comunità così nettamente connotata di fatto come paria, cittadini di serie B. E non siamo i soli, se è vero che Nelson Mandela, voce tra le più autorevoli nella lotta a livello internazionale contro la segregazione etnica e razziale ha scritto: «Israele non pensava ad uno “stato”, ma alla “separazione”. Il valore della separazione è misurato in termini di abilità, da parte di Israele, di mantenere ebreo lo stato ebreo, senza avere una minoranza palestinese che potrebbe divenire maggioranza nel futuro. Se questo avvenisse, Israele sarebbe costretto a diventare o una democrazia secolare o uno stato bi-nazionale, o a trasformarsi in uno stato di apartheid non solo de facto, ma anche de jure. […] Lo stato palestinese non può essere il sottoprodotto dello stato ebraico solo perché Israele mantenga la sua purezza ebraica. La discriminazione razziale israeliana è la vita quotidiana della maggioranza dei palestinesi. Dal momento che Israele è uno stato ebraico, gli ebrei godono di diritti speciali di cui non godono i non-ebrei. I palestinesi non hanno posto nello stato ebraico. […] L’apartheid è un crimine contro l’umanità. Israele ha privato milioni di palestinesi della loro proprietà e della loro libertà. Ha perpetuato un sistema di gravi discriminazione razziale e disuguaglianza. Ha sistematicamente incarcerato e torturato migliaia di palestinesi, contro tutte le regole della legge internazionale. […] La risposta data dal Sud Africa agli abusi dei diritti umani risultante dalla rimozione delle politiche di apartheid, fa luce su come la società israeliana debba modificarsi prima di poter parlare di una pace giusta e durevole in Medio oriente».
Per tutte queste ragioni non possiamo che rallegrarci, certo, che l’Italia non voti contro la richiesta dei palestinesi di essere accolti tra le altre nazioni del mondo come «osservatori» – perché il sionismo non intende permettere loro di fare nient’altro che osservare mentre i loro destini si decidono altrove – ma questo non lenisce per nulla la nostra vergogna nel constatare ancora una volta come le istituzioni italiane nelle mani del Capitale non facciano altro che porsi, in qualunque circostanza, al servizio dell’oppressione. Non ci resta che lottare perché un domani non sia più così e perché l’Italia diventi il paese di cui andar fieri che ardentemente desideriamo.