Perché né l’austerità né Keynes ci possono far uscire dalla crisi

Traduzione a cura di Francesco Delledonne

Das_KapitalSulle cause della crisi economica scoppiata nel 2008 – e su come uscirne – c’è molta confusione a sinistra, anche (ahi noi!) fra i comunisti. Questo riflette un cedimento alla ideologia dominante e una rinuncia ad una propria visione del mondo, indipendente, con cui analizzare e trasformare la realtà, e di conseguenza alla lotta per l’egemonia. Basti pensare, ad esempio, al continuo riferimento di Paolo Ferrero come soluzione della crisi ad un non meglio precisato “New Deal di classe”, o al tentativo operato da Oliviero Diliberto, nel congresso del 2001, di inserire uno strenuo difensore del capitalismo come Keynes fra i teorici di riferimento del Pdci. Questo comporta una subalternità di fondo nei confronti dei gestori dell’esistente, che ha inevitabilmente ricadute sulla strategia e sulla tattica del movimento comunista, con i risultati di ciò sotto gli occhi di tutti.

Pubblichiamo quindi, come contributo e perché si sviluppi una discussione seria su questi temi fondamentali, la traduzione di un articolo dell’economista marxista inglese Michael Roberts, in cui mette a confronto le teorie delle due fazioni dell’economia “ufficiale”, i “pro-austerità” e i keynesiani, ne evidenzia i limiti strutturali e dimostra che l’economia apologetica borghese, come già sottolineato a suo tempo da Marx, si dimostra incapace di progredire oltre all’economia classica (perché il farlo porterebbe inevitabilmente a evidenziare le contraddizioni e le limitazioni del sistema di produzione capitalistico) e di fronte ad una crisi sistemica dimostra di non sapere più che pesci pigliare.

*
IL DIBATTITO SULL’AUSTERITÀ, di Michael Roberts
Aprile 2012

[Una delle questioni principali di cui si sta occupando la economia “ufficiale” è] se la soluzione predominante dell’economia politica alla crisi debba essere l’austerità, cioè se bisogna tagliare la spesa pubblica e aumentare le tasse per ridurre i prestiti dello stato e i livelli di debito nel settore pubblico, oppure no. Questa questione deriva parzialmente dal dibattito su qual è stata la causa della “Grande Recessione” e su cosa deve essere fatto in proposito. La economia “ufficiale” è divisa su questo punto. Ma su una cosa però è d’accordo: l’obiettivo è di rimettere in piedi il modo di produzione capitalistico.
[…]
Dappertutto, i governi stanno cercando di ridurre i deficit di bilancio e impedire che il debito del settore pubblico (relativo al PIL) cresca ulteriormente. Apparentemente, questo dovrebbe essere cruciale perché le economie di Europa, Stati Uniti, Giappone e altri si risollevino. In Europa, alle “dissipate” e più deboli economie capitaliste di Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo e Italia viene detto che devono imporre enormi misure di austerità per ottenere ciò. E per la verità, queste misure vengono applicate anche nelle più forti economie capitaliste dell’Europa settentrionale e del Regno Unito. Negli Stati Uniti, dopo le elezioni presidenziali, chiunque vinca imporrà un significativo programma di tagli alla spesa pubblica e di aumenti di tasse per il resto del decennio. E in Giappone, con un debito pubblico ben al di sopra del 230% del PIL, il governo sta cercando di introdurre una batteria di nuove tasse per ridurre il deficit di bilancio e il livello del debito.

La domanda è se questa è la giusta politica per il capitalismo. Quelli pro-austerità sostengono che tutto questo è necessario per ridurre il costo del capitale – in altre parole, per aumentare la profittabilità. Se il settore pubblico inizia a chiedere in prestito sempre di più, il grosso dei risparmi presenti in un’economia verrebbero mangiati dal governo. Il governo “sbatterebbe fuori” il settore privato e gli impedirebbe di ottenere fondi; oppure la domanda in eccesso per i risparmi da parte del governo farebbe salire i tassi di interesse. E dato che il settore pubblico è intrinsecamente “improduttivo” – solo il settore capitalistico è produttivo – questo provocherebbe la diminuzione della crescita economica e peggiorerebbe le cose. Questo è il mantra dei repubblicani statunitensi, dei conservatori inglesi e di gran parte dei dirigenti delle banche centrali e del grande capitale.

I keynesiani non sono d’accordo. Se la spesa pubblica viene tagliata e le tasse vengono aumentate, questo provocherebbe la contrazione della domanda interna nell’economia e dunque diminuirebbe la crescita economica. Più austerità, per giunta, potrebbe significare troppa contrazione e causare addirittura come risultato una crescita del debito. In un periodo di recessione sarebbe meglio mantenere l’austerità al minimo fino a che la domanda non risalga, e cercare a quel punto di abbassare i livelli del debito. “Non così a fondo e non così in fretta” – è il mantra di Paul Krugman, Martin Wolf, George Soros, del Partito Democratico statunitense e del Partito Laburista britannico.

Prima di dire chi ha ragione, la prima questione da affrontare consiste proprio nel considerare perché c’è questo problema. C’è perché il modo di produzione capitalistico è fallito. La “Grande Recessione” è arrivata a causa del precipitare della profittabilità nel settore capitalistico sin dal 1997 (negli Stati Uniti e da altre parti) e infine per l’esplosione nel 2007 dell’enorme espansione del credito privato (quello che Marx chiamava “capitale fittizio”), che era necessario per continuare a far andare la baracca. Poi gli stati sono dovuti intervenire in aiuto del capitalismo per evitare un collasso bancario e per attenuare gli effetti della recessione.

Il Fondo Monetario Internazionale ha mostrato che il debito pubblico medio nell’OCSE è salito del 30% di PIL dal 2007 al 2011. Di questa crescita, 9 punti percentuali sono dovuti al precipitare delle entrate fiscali e alla crescita della spesa per la disoccupazione e per gli ammortizzatori sociali durante la “Grande Recessione”. Altri 7 punti percentuali di prestiti in eccesso sono andati in programmi fiscali per stimolare il settore privato o in programmi di investimento del settore pubblico. Il salvataggio delle banche è costato altri 7 punti, e poi ci sono stati costi maggiori provocati dal debito in eccesso[…], che sono costati altri 6 punti. Dunque, nelle economie capitalistiche mature, soltanto 1/4 della crescita del debito pubblico da quando è iniziata la Grande Recessione è dovuto a una politica consapevole di tipo keynesiano di stimoli fiscali da parte del governo. 3/4 della crescita sono dovuti alla recessione capitalista e al collasso del sistema bancario.

Ma è questo il cuore della questione: le politiche di austerità per ottenere la riduzione dei livelli di debito pubblico sono necessarie per rimettere in piedi il capitalismo o aggraveranno soltanto la crisi? Quelli “pro-austerità” dicono di sì, mentre i keynesiani dicono di no.
Cosa dicono i marxisti? Tutto dipende da ciò che sta accadendo alla profittabilità del settore capitalistico. L’espansione della spesa pubblica e del prestito possono stimolare l’economia capitalistica per un certo periodo di tempo ma, proprio come il debito privato, non per sempre. Ad un certo punto, il consumo dello stato diventa una deduzione dai profitti del settore capitalistico produttivo (e qui intendiamo “produttivo” nel significato marxista del termine, cioè che genera profitto e accumula capitale, non che produce cose).

È proprio questa differenza fra lavoro produttivo e improduttivo nel capitalismo che i keynesiani non riconoscono. E questo avviene perché Keynes non riconosceva [l’esistenza di] una legge del valore o di un qualsiasi ruolo per il profitto nella crescita economica. Per lui, la produzione di cose e servizi genera i redditi, mentre il profitto non è una questione.

I “pro-austerità” vogliono che venga portato a termine il processo di “distruzione creativa” (come lo ha definito Joseph Schumpeter) del capitale improduttivo. Non vogliono che il settore pubblico impedisca il ripristino della profittabilità, in un momento in cui il capitalismo è gravato da capitale morto in eccesso nel settore privato, che deve essere smaltito. La spinta temporanea ai redditi creata dalla spesa pubblica non può essere una soluzione complessiva per la ripresa economica nel capitalismo. Anzi, in una situazione di recessione o di crescita lenta, l’aumento del debito pubblico appesantisce soltanto il carico del debito privato che opprime la profittabilità, anche se può essere fatto dell’interesse da parte del settore finanziario nell’acquistare obbligazoni dello stato.

Il mantra dei “pro-austerità” è che non si può risolvere il problema del debito eccessivo con ulteriore debito. Oltretutto, se il settore pubblico continua ad espandersi, ciò mette in discussione lo stesso modo di produzione capitalistico – una questione di cui oggi iniziano a preoccuparsi gli stessi keynesiani. Dunque, a meno che la profittabilità non venga ripristinata attraverso la distruzione creativa, l’aumento della spesa pubblica e del debito cominceranno ad aggravare la crisi o, per lo meno, significherà che qualsiasi ripresa basata sulla produzione capitalistica sarà smorzata e insufficiente.

Ecco perché anche l’argomentazione dei “pro-austerità” ha un senso. D’altro canto, anche i keynesiani hanno le loro ragioni. Un taglio troppo drastico della spesa pubblica, nel tentativo di ridurre il debito o di impedire che cresca ulteriormente, ucciderebbe anche le possibilità di quei settori che beneficiano dall’attività dello stato. Il dibattito dunque continua a girare su se stesso.

Come sostiene un economista “ufficiale”, “non possiamo avere delle risposte definitive”, (G. Corsetti, “Has austerity gone too far?”). Entrambe le fazioni “ufficiali” concordano sul fatto che i deficit dello stato devono essere ridotti e il debito infine “stabilizzato”. Ancora Corsetti: “Il dibattito non è sulla desiderabilità o meno di restaurare una posizione fiscale più sicura dopo il largo aumento del debito pubblico negli ultimi anni. Questo può essere dato per scontato”. Tutto bene, allora.

Ma i pro-austerità vogliono che venga fatto più velocemente e vogliono che i tagli siano diretti alla spesa pubblica piuttosto che vengano aumentate le tasse. Presentano la prova di 40 anni di questi “aggiustamenti”, compilata recentemente dal FMI per le economie capitalistiche mature. Questa raccolta di dati conclude (piuttosto cautamente) che gli aggiustamenti attraverso tagli alla spesa sono meno “recessivi” di quelli ottenuti attraverso l’aumento di tasse.

Questo non è in verità soprendente nel capitalismo. Gli aumenti di tasse colpiscono direttamente la profittabilità del settore capitalista (anche se le tasse vengono dirette verso i redditi dei lavoratori e si tratta di tasse “sulle vendite” e non di imposte sul reddito delle società) e dunque scoraggeranno gli investimenti. Le riduzioni nel consumo e nell’investimento del governo, anche se colpiscono quei settori capitalistici da cui il governo acquista servizi, sono più vantaggiose per i capitalisti nel loro insieme. Naturalmente, ciò non ha nulla a che fare con quello che sarebbe vantaggioso per la società.

La “fiducia” fra i capitalisti cala quando le tasse vengono aumentate e non cala quando la spesa pubblica viene diminuita. La riduzione dei servizi pubblici e della occupazione “comporterà” anche misure per ridurre la protezione occupazionale, le condizioni di pensionamento e altri diritti dei lavoratori del settore pubblico. Tutto ciò favorirà l’accumulazione capitalistica elevando il saggio del plusvalore.

Ma se una dura austerità porta a una caduta dell’occupazione e quindi della domanda di produzione capitalistica, questo rallenterebbe la crescita e potrebbe persino far riprecipitare l’economia in una recessione. Questa è l’argomentazione dei keynesiani. Paul Krugman ha giustamente sottolineato che il modo migliore di abbassare la percentuale del debito è attraverso una crescita economica più forte, com’è accaduto dopo la seconda guerra mondiale. Il rapporto del debito pubblico netto rispetto al PIL negli Stati Uniti era dell’80% nel 1950; per la fine del decennio era sceso al 46%, anche se la spesa pubblica rispetto al PIL era cresciuta! Com’è stato possibile? Perché la crescita reale media era del 4,3% all’anno (con un’inflazione del 2,3% all’anno – grosso modo come quella attuale). La crescita reale del PIL è stata decisiva per far scendere la percentuale di debito.

Ma Krugman e gli altri keynesiani non spiegano esattamente perché la crescita economica fu così elevata. Gli anni ’50 furono anche un periodo di profittabilità elevata nel settore capitalistico statunitense. Questa fu la vera chiave per gli investimenti e la crescita. Una profittabilità di quel tipo rese possibile al settore capitalistico di sopportare un alto livello di debito pubblico e di accettare percentuali di tassazione molto più alte di oggi, così come una forte spesa pubblica. La profittabilità era alta grazie alla “distruzione creativa” di capitale che aveva avuto luogo durante la Grande Depressione degli anni ’30 e grazie alla distruzione fisica che aveva avuto luogo durante la guerra (almeno in Europa). La spesa pubblica fu dunque vantaggiosa per il capitalismo del dopoguerra, fino a che la profittabilità è rimasta elevata. Ma queste condizioni non si applicano nel 2012.
[Va anche considerato il ruolo rilevante del blocco socialista e del forte movimento comunista nei paesi sviluppati nel forzare le classi dirigenti capitalistiche a concedere protezioni sociali prima impensabili. Anche questo evidentemente oggi non vale. NdT].

I keynesiani sono preoccupati del fatto che una “austerità accelerata” possa rischiare di indebolire il capitalismo, dal momento che condurrebbe alla “prematura distruzione di capitale fisso e di capitale umano”. Ma questo è precisamente lo scopo di una recessione capitalistica. La recessione alla fine ripristina la profittabilità del capitale restante. Ancora una volta, i keynesiani vedono tutto nei termini di produzione e di beni fisici e non in termini di profitto. Dunque non possono comprendere la natura della crisi e offrire poltiche efficaci per uscirne.

E appunto abbiamo tentativi dei keynesiani di trovare una “via di mezzo” fra l’austerità e lo stimolo. Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, la mette così: “C’è necessità di un sostanziale consolidamento fiscale e i livelli di debito devono diminuire. Ma dovrebbe essere una maratona più che una volata. Serviranno due decenni per ritornare a livelli prudenti di debito (!). C’è anche un proverbio che si applica qui: chi va piano va sano e va lontano”.

Più di recente, due dei più grandi guru della economia “ufficiale”, Bradford de Long, il professore keynesiano della Berkeley University della California, e Larry Summers, l’ex segretario al tesoro sotto Clinton e noto negazionista di ogni crisi prima che scoppi, hanno pubblicato uno studio che esamina la questione se l’austerità fiscale è una buona idea o no per il capitalismo.
[…]
E cosa concludono de Long e Summers? Ritengono che quando i tassi di interesse si trovano a zero o vicini allo zero e le banche centrali hanno fatto tutto il possibile per stimolare l’economia capitalistica con iniezioni di credito (“alleggerimento quantitativo” o stampando denaro), come avviene nella situazione attuale, e non c’è ancora alcuna crescita, allora misure fiscali dovranno favorire la ripresa dell’economia capitalistica, invece che ostacolarla. Ma questo è vero “solo se lo stimolo fiscale può essere compiuto in modo tempestivo e provvisorio”. Molto utile! Quanto gli stimoli debbano essere consistenti “rimane da stabilirsi in ricerche future”. Ciò significa semplicemente che non lo sanno.

http://thenextrecession.wordpress.com/2012/04/14/the-austerity-debate/

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È proprio il caso di dire, come ha scritto Henri Houben, economista del Partito del Lavoro del Belgio, che “tutto mostra come la teoria [di Keynes], più complessa della teoria del movimento liberale, non permetta quello che egli sperava [=la stabilizzazione e il miglioramento del sistema, NdT]. Anche con Keynes, il capitalismo è sulla strada del caos e della guerra”.

Se le cause delle continue crisi, per cui le vite di milioni di persone vengono rovinate, sono quindi strutturali, è il sistema capitalistico stesso a dover essere sostituito.

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