di Alessio Arena
Stentiamo a trovare le parole con cui far prendere le mosse alla nostra riflessione. E questo non tanto per l’inappellabilità della sconfitta che si è abbattuta su di noi con il fallimento del progetto elettorale di Rivoluzione Civile, quanto piuttosto per il profondo distacco che ci viene ispirato dal tenore del dibattito da esso innescato nelle nostre fila. Alla bocciatura definitiva della via percorsa dai comunisti negli ultimi due decenni fanno riscontro analisi e argomentazioni che proprio quella via hanno caratterizzato: “unità della sinistra”, “evitare l’isolamento”, “sconfiggere le pulsioni minoritarie” sono tutte locuzioni che appartengono al trapassato remoto del politichese e che lì andrebbero relegate, invece che seguitare ad essere riproposte per spiegare un tracollo che ha radici sociali profonde e al quale non si può pensare di porre rimedio imboccando qualche abusata, già battuta e fallimentare scorciatoia politicista.
Accanto a ciò, come da canovaccio della più implacabile, inquietante coazione a ripetere, la sottovalutazione dell’avversario di classe e delle sue espressioni politiche: “Grillo si sgonfierà”, “il M5S è una costola della sinistra” ecc. Espressioni già sentite e risentite riferite di volta in volta alla Lega, a Berlusconi e in generale a tutte le vesti multiformi assunte dalla reazione antidemocratica dal collasso della Prima Repubblica in qua. Nessuna novità. Il nostro dibattito sembra condannato a restare imprigionato in un determinismo storico esasperato, nella fede cieca nella mano provvidenziale che spazzerà via i nostri nemici, incapaci d’interpretare le profonde verità sociali da noi così saviamente e inderogabilmente incarnate, e che renderà giustizia alle nostre profonde ragioni. Ed effettivamente si può dire che la Storia abbia fatto alla lunga giustizia di quelli che fino a ieri erano i nostri avversari prioritari (PDL e Lega innanzitutto), severamente ridimensionandoli e allontanandoli dalla prospettiva del governo del paese. La stessa cosa vale per il PD, sull’atteggiamento ambivalente nei confronti del quale torneremo, il quale, a sua volta drasticamente ridimensionato, ha ottenuto nelle urne una vittoria più amara di una sconfitta, nella misura in cui essa lo stringe all’angolo della responsabilità di formare un governo senza fornirgli nessun interlocutore con cui conquistare l’agognata maggioranza in Senato, se non l’odiato (?) Berlusconi e il pericolosissimo Grillo, interprete insieme a Monti del compimento della transizione iniziata nel nostro Paese con lo scioglimento del PCI (nel contesto internazionale creato dalla fine del campo socialista e della Guerra Fredda) e protagonista della sua normalizzazione in chiave reazionaria e tecnocratica dentro l’Europa in crisi.
Stentiamo a intervenire, dicevamo. E questo perché se le categorie sulle quali s’incardina il dibattito sono quelle che traspaiono dai primi contributi pubblicati, se la risposta al disastro che viene emergendo ha come parola d’ordine – di nuovo! – quella dell’unità della sinistra, la prima, viscerale reazione che si sperimenta è quella di percepire, farsi schiacciare dalla consapevolezza che il nostro movimento non è più vitale e, come tale, non è più in grado di corrispondere alla realtà in termini teorici e pratici. A salvarci dalla tentazione della ritirata, dalla rassegnazione dei vinti, è però la consapevolezza della necessità storica dell’antagonismo sociale e quindi politico: esso risponde a precisi bisogni sociali – e quindi anche individuali – cui non verrà data risposta se tutti insieme, da compagni, non ci disponiamo a un dibattito franco, aperto e senza sconti che definisca cosa dobbiamo fare ora, come dobbiamo rispondere all’attualità che ci vede piegati, impotenti, inermi. Partecipare al dibattito, tentare di sconfiggere i residui delle posizioni distruttive e fuori dalla Storia che ci hanno condotti a questo punto è un dovere personale di ciascuno, sottraendosi al quale, se si è maturata una coscienza politica rivoluzionaria, si macchia quella coscienza dell’infamia maggiore, della più grave delle colpe: quella di abbandonare il fronte a battaglia in corso, nel momento in cui forze soverchianti si dispongono a schiacciare quelle del progresso e a chiudere, almeno nel nostro paese, ogni prospettiva possibile che conduca altrove che verso il disastro.
Partecipiamo dunque al dibattito col cuore pesante, con la consapevolezza che il primo avversario da sconfiggere siamo in certo modo noi stessi, è la nostra tendenza a non riconoscere fino a che punto i nostri ragionamenti siano indirizzati da un senso comune reazionario trionfante nella società che non solo non ci risparmia, ma anzi ci tiene in ostaggio e ci ha mossi come marionette fino a farci lanciare, con le nostre stesse gambe, nel baratro in cui siamo precipitati.
Nella condizione in cui ci troviamo, la nostra stessa Storia, la grandezza passata ci sono d’intralcio. Non analizzate criticamente, non relazionate con l’oggi, esse ci spingono a sopravvalutare noi stessi, a cercare scorciatoie per ovviare a una marginalità che è ormai dato oggettivo della nostra esistenza e che mai prima i comunisti italiani avevano sperimentato, nemmeno negli anni difficili della clandestinità e della lotta antifascista. Conseguenza ne è la falsa impressione che l’uscita dalla situazione presente passi altrove che da un paziente lavoro di lunga lena per ritrovare il radicamento nel conflitto sociale, armati della consapevolezza che sarà difficoltoso e richiederà grandi sacrifici ritrovare la credibilità, l’autorità morale di cui gli anni del collaborazionismo di governo ci hanno privati agli occhi delle masse e che sono la condizione soggettiva necessaria per potere anche solo abbordare il problema dell’egemonia gramsciana.
“Ma la crisi è oggi, ed essa crea le condizioni oggettive per metterci nella posizione di crescere rapidamente!”, obietterà qualcuno. Vero, ma le condizioni oggettive, in assenza di quelle soggettive non producono coscienza politica: al contrario, esse producono disperazione, e la disperazione non tradotta in lucida volontà di lotta è il più poderoso induttore del sonno della ragione che genera mostri.
Nessuna scorciatoia, dunque. Nessuna formuletta preconfezionata come quella del “partito sociale” uscita dal congresso di Chianciano, per comprovare il fallimento della quale è sufficiente rendersi conto di come, laddove tale formula è stata applicata, il disastro elettorale sia stato del tutto pari a dove invece essa non ha trovato applicazione.
Significativamente, Rivoluzione Civile ha potuto registrare invece risultati elettorali molto sopra la media nella Taranto dell’ILVA e nella Carbonia del Sulcis. Non un caso, crediamo, ma forse invece un piccolo segnale della via da percorrere, tenendo ben presente che trasformare quel segnale in una proficua direttrice di lavoro su scala nazionale significa non soltanto collocarsi in una prospettiva che non darà frutti dall’oggi al domani, ma anche affrontare un processo di profonda trasformazione culturale del partito che sappia nello stesso tempo rielaborare criticamente il percorso trascorso dei comunisti italiani – a cominciare dall’eredità del PCI – e portare a termine la sistematica liquidazione di ogni elemento di bertinottismo dal nostro patrimonio ideale e politico. Significa insomma portare a termine, finalmente e abbondantemente fuori tempo massimo, il tanto agognato e mai concretizzato progetto teorico e pratico di rifondazione comunista che il nostro partito porta nel nome, ma solo in quello.
I nuovi volti della reazione: qualche parola su Monti e il PD
Si è molto scritto, nei giorni successivi al voto politico, del fallimento della prospettiva di governo incarnata da Mario Monti e dalla sua aggregazione centrista. Una valutazione sostanzialmente corretta, a nostro avviso. Ci pare tuttavia necessario argomentare il nostro dissenso rispetto alla lettura dominante dei dati elettorali, che vorrebbe il montismo sconfitto nelle urne per via del risultato, considerato “magro”, della coalizione guidata dall’ex presidente del Consiglio. Una valutazione a nostro avviso superficiale e non rispondente a realtà.
Naturalmente si potrebbe argomentare, in ossequio al distacco tra i risultati attribuiti al Professore dai più lusinghieri sondaggi elettorali della vigilia e la percentuale di poco superiore ai dieci punti da questi effettivamente incassata, che il risultato elettorale della “Scelta Civica” montiana sia da considerarsi insoddisfacenti in sé.
Non ci pare che questa lettura sia da considerarsi corretta innanzitutto da un punto di vista di classe. Mario Monti è infatti riuscito a concentrare sul suo schieramento la rappresentanza largamente prevalente dei ceti dominanti della nostra società, e cioè di quel 10% della popolazione italiana che detiene il 50% della ricchezza nazionale. Mai era successo, dal tramonto dello strapotere del Partito Liberale negli anni ’20 e dall’emersione del fascismo, che il padronato italiano investisse così compattamente su un progetto di esplicito intervento politico nella vita delle istituzioni. In subordine e come conseguenza, la coalizione montiana ha riportato un progetto centrista autonomo dalla destra e dalla “sinistra” su percentuali a due cifre per la prima volta dal 1994. All’interno della coalizione, la lista guidata da Mario Monti ha annullato elettoralmente tanto l’UDC di Casini quanto il gruppuscolo guidato da Gianfranco Fini, confermando così l’investimento dei settori sociali di riferimento del centrismo su soluzioni tecnocratiche invece che politiche.
Dunque un risultato che, considerato in sé ed astratto dal contesto, non consegna a Monti un bilancio fallimentare. Eppure il Professore è stato sconfitto. Ma è stato sconfitto dall’implosione dell’alleato strategico cui si rivolgeva il suo progetto di ricomposizione centrista dello scacchiere politico: il PD di Bersani e il suo centrosinistra di marca atlantista, liberista ed europeista.
Sarebbe infatti toccato al PD mettere a disposizione del disegno montiano la capacità di attrarre nell’egemonia del Capitale monopolistico settori prevalenti del ceto medio funzionariale (pubblico e privato) e delle classi lavoratrici. Una circostanza, questa, resa impossibile certamente dalla catastrofe morale di un partito attraversato pienamente dalla decomposizione intellettuale e morale che vive il nostro paese, come testimoniato dalla lunga catena di scandali di cui il Monte dei Paschi di Siena è solo l’ultimo anello: un tale partito, così compromesso con il potere da macchiarsi in più situazioni di gravi casi di malversazione e speculazione ai danni dell’interesse pubblico, non ha avuto l’autorevolezza necessaria per proporsi alla guida di una popolazione resa assai sensibile al tema della probità e della legalità dalla stessa agitazione antiberlusconiana che è servita negli anni a mascherare il patto consociativo tra centrosinistra e centrodestra per imporre al Paese un’alternanza bloccata al governo su modello americano e spartirsi di comune accordo quote di potere. La motivazione principale ci pare tuttavia un’altra, a questa connessa: un partito a tal punto compromesso non godeva, non ha goduto della capacità di direzione morale necessaria a imporre ai suoi ceti sociali di riferimento l’accettazione dei quindici mesi di governo della coalizione PD-PDL-UDC sotto il segno dell’austerità imposta dalla trojka UE-BCE-FMI. Di qui l’emorragia di voti dal PD verso il M5S, che ha infine determinato la disfatta della coalizione di centrosinistra nelle regioni chiave per ottenere la maggioranza al Senato e, conseguentemente, il collasso del disegno di continuità con il governo tecnico facente capo a Mario Monti.
Monti è stato dunque sì sconfitto, ma in effetti dal fallimento del PD.
L’eterno ritorno di Berlusconi?
In questo quadro, nel dibattito successivo alla consultazione elettorale è parso quasi che a risultare vincente sia stata la coalizione di destra guidata da Berlusconi. Un esito determinato in larga parte dall’isteria antibelusconiana prevalente in molti settori del Paese, che il PDL ha saputo poi sapientemente cavalcare per nascondere dietro una coltre di chiacchiere la cocente bocciatura ricevuta dalle urne, che hanno portato in Parlamento una coalizione di destra pressoché dimezzata e tenuta in vita anche da una legge elettorale imposta con un colpo di maggioranza nel 2005 e mai cambiata perché infine corrispondente all’interesse del PD di eliminare con artifici legali i concorrenti di sinistra non del tutto estirpabili con mezzi politici.
Va certamente riconosciuto che la conferma della coalizione PDL-Lega alla guida della Lombardia, in larga parte merito dell’assoluta insipienza del centrosinistra nazionale e lombardo, ha contribuito non poco a restituire respiro a una destra stremata e a una Lega prossima al trapasso dopo gli scandali di inizio 2012, per tamponare i quali Maroni ha dovuto sottomettersi a un vero e proprio atto di omaggio al governo tecnico, tramite il quale trasformare il proprio partito in opposizione di sua maestà, sancito agli “Stati Generali” leghisti dalla visita del ministro-Banca Intesa Corrado Passera sotto i buoni uffici del protetto sindaco Tosi, non a caso astro nascente del Carroccio. Tuttavia non si può non riconoscere come la funzione reazionaria, demolitrice dello spirito antifascista e costituzionale assolta dalla coalizione di Berlusconi nell’ultimo ventennio, sia venuta esaurendosi.
Sulle macerie del nostro progresso politico e sociale, un nuovo interprete si propone per condurre lo sfascio organizzato della nostra vita civile alla sua fase terminale: il MoVimento 5 Stelle di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio.
Il grillismo come fase terminale dell’involuzione reazionaria
Non stupisce, nel contesto prodotto dall’austerità montiana, che il M5S si sia dimostrato capace d’intercettare la rabbia popolare e indirizzarla verso la realizzazione del sogno proibito di chi comanda e ha sempre comandato, nel nostro Paese come in tutto l’Occidente, per l’Italia: lo smantellamento completo delle forme organizzate di partecipazione diretta dei lavoratori alla vita del paese. Proprio quelle forme iscritte nella Costituzione repubblicana che il movimento grillino asserisce di volere tutelare.
E dunque ecco indicati i nemici contro cui il M5S si propone di combattere: in primo luogo, tanto da meritare il primo paragrafo del programma elettorale, i partiti politici. In secondo luogo, non direttamente investiti dalle proposte programmatiche del movimento, ma ripetutamente menzionati da Grillo nel corso dei suoi interventi pubblici, con duri attacchi, i sindacati dei lavoratori. Come nel più classico canovaccio reazionario, elementi di contestazione fondamentalmente veri (la trasformazione degli apparati sindacali in macchine di clientela e l’esplosione della questione dell’occupazione della cosa pubblica da parte di partiti ormai largamente degenerati in conglomerati di fazioni il cui principale esercizio è difendere interessi disparati, spesso anche loschi) vengono piegati alla giustificazione di un intervento regressivo, finalizzato nel caso specifico alla sostanziale soppressione degli strumenti di partecipazione e di conflitto a disposizione delle classi subalterne.
Che il M5S abbia essenzialmente questa finalità lo si può evincere sin dalla sua struttura. Si tratta di un organismo verticistico, completamente dominato dalla figura del suo capo carismatico – non a caso per lo più l’unico a essere stato autorizzato a prendere la parola nei comizi della campagna elettorale, veri e propri monologhi teatrali fiume durante i quali i candidati del movimento, silenti, venivano convertiti in elementi scenografici del palco su cui si consumava lo spettacolo della catarsi che investiva oratore e ascoltatori.
Dietro la figura del teatrante che imbonisce la folla, l’ombra della Casaleggio e Associati, questa oscura azienda di marketing telematico dal cui organigramma sociale è scaturita la decisione di dar vita a quello che poi sarebbe diventato il M5S. Un’azienda tanto più misteriosa e difficile da inquadrare, se si considerano da un lato i nomi di suoi fondatori, tra cui spicca oltre al già citato Casaleggio, proveniente dagli altissimi ranghi di gestione del capitalismo nazionale, soprattutto Enrico Sassoon, già vicepresidente della American Chamber of Commerce in Italy, legato da numerosi passaggi del curriculum agli stessi Monti e Napolitano ed espressione degli stessi think thank internazionali di cui fanno o hanno fatto parte questi ultimi. Sicché non stupisce apprendere come Grillo abbia ottenuto udienza dall’Ambasciatore americano a Roma già in tempi non sospetti, nel 2008, e come questi abbia potuto definire il comico genovese un interlocutore lucido e credibile, nel report dell’incontro trasmesso al Dipartimento di Stato. Né stupiscono gli entusiastici apprezzamenti con cui Goldman Sachs, la banca d’affari statunitense delle cui alte gerarchie ha fatto parte lo stesso Mario Monti, ha accolto il risultato delle elezioni italiane e in particolare l’affermazione del M5S.
Se ci si sofferma sul programma elettorale del movimento grillino, non si può fare a meno di constatare come, sul piano degli interventi economici strutturali, ben nascoste dietro parole d’ordine finto-progressiste perfettamente in linea con la migliore tradizione dello stato sociale bottaiano, figurino alcune misure uscite direttamente dal libro dei sogni dei potentati economici dominanti nel nostro Paese.
Dall’apertura alla concorrenza dei monopoli di fatto (ad esempio la viabilità) all’abolizione del valore legale del titolo di studio, dalla sostituzione della cassa integrazione con un salario sociale vincolato all’accettazione di una proposta di lavoro da parte del collocamento, dall’eliminazione dei contributi pubblici alle testate giornalistiche alla “integrazione Università/Aziende”, il programma del M5S si qualifica come strutturalmente liberista. E non è un caso che la questione dell’eguaglianza sociale non attraversi nemmeno una della pagine virtuali del documento.
Il risvolto reazionario più pericoloso del M5S, quello che lo integra a pieno titolo tra gli elementi cardine della fase terminale dell’involuzione reazionaria nel nostro Paese, è però un altro, strettamente connesso con la rilevanza centrale che quel movimento attribuisce allo sviluppo della cosiddetta e-democracy. Una tematica già sviluppata da un inquietante videoclip diffuso dalla Casaleggio e Associati in cui si attribuisce a Google (un’impresa privata!) la futura creazione di una piattaforma online di governo diretto dei cittadini chiamata “Gaia”. Una svolta prevista non prima della guerra mondiale tramite la quale le “democrazie” occidentali libere grazie al web dovranno infine aver ragione dell’impero del male rappresentato da Russia e Cina, a costo dello sterminio di 6/7 della popolazione mondiale (link)!
Questa caratteristica fa del grillismo un fenomeno reazionario completamente nuovo, ma nella sua natura profonda assai più pericoloso del berlusconismo. Non capirlo, trastullarsi nell’idea che basti lisciare un po’ il pelo al movimento per recuperare il consenso da esso sottratto alla sinistra radicale o sperare d’indirizzarlo positivamente, equivale ad essere fuori dalla Storia.
Tramite l’ideologia della e-democracy, il grillismo aggredisce la socialità umana, la distrugge e la sostituisce con il contatto mediato dell’individuo con la società attraverso la rete. Una forma di tecnocrazia virtualmente invincibile, perché costruisce la falsa coscienza del “tutti uguali a tutti” e vi nasconde dietro il controllo esercitato dai detentori dei mezzi tecnologici ed economici sulla circolazione delle informazioni. Nella e-democracy la consapevolezza delle contraddizioni sociali, l’appartenenza di classe cedono il posto all’adesione a una categoria di cittadinanza svuotata di significato, emancipata dal suo contenuto comunitario.
Il grillismo piega dunque le nuove tecnologie, le usa per ovviare alla disfunzione maggiore della reazione tradizionale: il non potere invertire la tendenza al protagonismo delle masse nella vita politica e sociale. Questo lo mette in condizione d’infliggere un colpo decisivo ai sindacati dei lavoratori e ai partiti politici, uniche forme di vero coinvolgimento delle masse nella vita pubblica, rese però esauste e corrotte da vent’anni di patto di potere con il berlusconismo.
La disfatta di Rivoluzione Civile
Il risultato di Rivoluzione Civile è senza dubbio il frutto di diverse concause, tra le quali va menzionata la sostanziale scomparsa dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, un movimento di matrice interclassista fondato su un consenso d’opinione che si è esaurito con la rapidità con cui era sorto, nel momento in cui la sua esistenza si è fatta incomoda per lo stato di cose presente. Una circostanza che menzioniamo sin da subito per darne conto e passare rapidamente oltre, forti però di un presupposto necessario: con l’Italia dei Valori si è in effetti avverata l’inconsistenza dell’unico interlocutore del nostro partito, giunto all’appuntamento elettorale sotto le insegne di Rivoluzione Civile portando in dote un consenso elettorale di partenza significativo.
La convulsa fase di costruzione dell’alternativa democratica all’austerità montiana e ai partiti che ne erano stati il sostegno ha preso le mosse, come noto, dalla rottura della Federazione della Sinistra causata dalla scelta del PdCI di Diliberto di cercare l’accordo con un centrosinistra cui Bersani aveva impresso, a suo dire, una svolta “laburista e socialista”. Delle fasi accertate o presunte della trattativa tra il PdCI e il centrosinistra non ci occuperemo. Quello che è certo è che a metà del mese di dicembre erano in campo due progetti di “lista arancione”: “Cambiare si può”, che vedeva Rifondazione Comunista impegnata, fuori dall’alleanza col PD, a tentare di attrarre a sé i riluttanti Orlando e De Magistris con l’appoggio di interlocutori di dubbia rilevanza e nessuna autorevolezza (Viale, Ginsborg, Sinistra Critica, ecc.), e successivamente “Io ci sto”, appello lanciato da Antonio Ingroia – con il sostegno del PdCI – con l’obiettivo di costituire un aggregato elettorale alleato con il PD.
Il veto del Quirinale sul nome di Ingroia tra gli alleati di centrosinistra e l’adesione di Rifondazione all’appello “Io ci sto”, hanno creato le condizioni perché Rivoluzione Civile risultasse quello che poi è effettivamente stata: un’alleanza di forze di matrice democratica ed esponenti della cosiddetta “società civile”, uniti dall’opposizione all’austerità montiana. E questo malgrado le molte, ma a nostro parere non decisive ambiguità con cui Rivoluzione Civile si è rivolta al centrosinistra, anche dopo la sua costituzione, per ottenere un’alleanza. Diciamo “non decisive”, perché le condizioni che si proponevano al centrosinistra come inderogabili perché l’alleanza si facesse erano tali da scongiurare alla radice il pericolo di una risposta affermativa e apparivano invece come più che altro provocatorie e tese a depotenziare l’argomento del “voto utile”. Ben più grave è stata invece l’esperienza della lista Etico in Lombardia, alleata con il centrosinistra a sostegno della candidatura a presidente della Regione di Umberto Ambrosoli, personaggio nettamente connotato a destra.
L’egemonia oggettiva assunta da Rifondazione in Rivoluzione Civile e la netta prevalenza delle forze dispiegate dal partito nella campagna elettorale rispetto a quelle messe a disposizione dagli alleati, offrono dunque materia di riflessione innanzitutto sui nostri limiti, che sono poi il nodo su cui dovrà concentrarsi la nostra analisi, la quale avrà la responsabilità di evitare il pericolo di rifugiarsi nell’addossare la colpa della sconfitta all’inconsistenza degli alleati o all’apporto di consenso nullo offerto dai candidati della “società civile”.
Se si va alla radice del problema, i punti dirimenti che il nostro partito dovrà affrontare, pena la sua già precaria sopravvivenza, sono a nostro avviso i seguenti:
– Concezione del mondo e profilo teorico: se il partito deve essere la forza che conosce il mondo per trasformarlo, allora deve dotarsi di strumenti conoscitivi adeguati, liquidando anche a costo di sacrifici i residui dell’eclettismo bertinottiano;
– Elaborazione di un programma politico: tramite un dibattito aperto e capace di sintesi, dobbiamo dire ai lavoratori qual è il nostro punto di vista sulla Storia nazionale e come intendiamo trasformare la società italiana;
– Disciplina e unità: dal ritorno all’applicazione del principio della sintesi deve scaturire un nuovo senso dell’appartenenza al partito e della disciplina, da affermare anzitutto tramite l’immediato scioglimento delle correnti organizzate e l’allontanamento dalle funzioni di direzione dei personaggi più compromessi con il consolidarsi, in questi anni, della cancrena correntizia;
– Radicamento nel conflitto sociale, anzitutto attraverso la definizione di una linea sindacale univoca e razionale e l’abbandono dell’infruttuosa e fiaccante costruzione delle strutture del cosiddetto “partito sociale”.
La stessa categoria di “sinistra”, oggetto delle ricette da molti proposte per ricostruire la nostra presenza nella società, deve essere necessariamente rielaborata e rinnovata, se è vero che dalla Bolognina alla scissione vendoliana essa è passata dal definire lo spazio politico dell’egemonia dei comunisti al costituire la categoria della liquidazione del comunismo, e con esso della possibilità della trasformazione della società, nell’ottica dell’integrazione nel sistema.
Questi nodi avrebbero dovuto essere già affrontati nel 2008. Così non è stato ed è per questo che, nella situazione che avevamo davanti lo scorso mese di dicembre, Rivoluzione Civile si è presentata come non solo l’unica via concretamente percorribile per aggirare le nostre insufficienze e rientrare in Parlamento, ma anche come l’opzione migliore tra quelle in campo, rafforzata dall’autorevolezza personale di Ingroia.
Per quanto ci riguarda, abbiamo sostenuto Rivoluzione Civile fino in fondo e con convinzione, non risparmiandoci nel denunciarne i limiti (cfr articolo La crisi non ci aspetta del 3 gennaio). Disciplinatamente abbiamo fatto campagna elettorale per la lista Etico nella nostra regione, pur non condividendo nulla di quel progetto e denunciandone anzi la pericolosità nelle sedi opportune. Ora si apre il dibattito sulla disfatta: rivendichiamo il diritto a parteciparvi con la forza dei nostri argomenti e l’autorevolezza data dal lavoro fatto, unico elemento in grado di legittimare alla critica e condividere il cambiamento senza il quale salvare Rifondazione Comunista potrebbe risultare impossibile.