di Alessio Arena
su Liberazione – Giornale comunista, lunedì 19 agosto 2013
La Costituzione repubblicana resta l’unico ostacolo alla piena affermazione, resa possibile dalla rottura del tabù delle «larghe intese», dell’autoritarismo tecnocratico incarnato dapprima dal governo Monti e oggi dal gabinetto presieduto da Enrico Letta. L’attuale governo, come il precedente, nasce dalla riconciliazione forzosa tra capitalismo monopolistico di Stato e grande finanza speculativa imposta dalla crisi strutturale del Capitale. Una ricongiunzione d’interessi spesso conflittuali, che nel nostro Paese ha trovato risposta nella riduzione del primo a una funzione ancillare rispetto al secondo, sotto i buoni auspici di Giorgio Napolitano e nel quadro internazionale determinato da un’estensione della conflittualità tra le grandi potenze come da tempo non si vedeva.
Non stupisce dunque che molteplici soggetti organizzati e insigni personalità della scena pubblica e del campo intellettuale, tra cui il nome di Stefano Rodotà assume particolare evidenza per la vicenda dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica di cui questi è stato protagonista la scorsa primavera, chiamino a organizzarsi per difendere la nostra legge fondamentale. L’azione concreta per la difesa della Carta e dei principi in essa contenuti è una necessità politica dirimente, così come il suo successo risulta determinante per non compromettere la capacità di resistenza degli italiani alla macelleria sociale che avanza sulla loro pelle e contro i loro interessi.
Tuttavia la parola d’ordine della difesa della Costituzione nasconde anche delle insidie. Rendersene conto, individuarle ed evitarle è a sua volta condicio sine qua non del successo. Ci proponiamo di evidenziarne le principali e tentare di proporvi una risposta, procedendo dal problema più superficiale per concludere con la contraddizione a nostro avviso fondamentale.
Innanzitutto, quando si parla di «salvare la Costituzione» occorre specificare di quale Costituzione si stia parlando. Occorre infatti prendere pienamente coscienza che la Carta che regola oggi la nostra vita civile non è più in tutto quella del 1948. Essa è stata manomessa dal centrosinistra nel 2001 in uno dei suoi passaggi dirimenti: quello delle autonomie locali. Un passaggio dirimente per una legge fondamentale che si propone di dare struttura a uno Stato unitario di recente formazione, in cui gli squilibri territoriali di sviluppo permangono come uno dei problemi più stridenti della vita nazionale. Non a caso l’antifascismo vittorioso istituì le regioni a statuto speciale prima ancora dell’entrata in vigore della Costituzione, come non a caso il regime democristiano ritardò di quasi trent’anni l’istituzione delle regioni a statuto ordinario: la definizione della forma dei poteri locali e l’individuazione dei corretti equilibri da stabilire tra questi è lo Stato è, nella concreta situazione italiana, un problema di organizzazione del potere di primaria importanza per la vita stessa delle popolazioni che abitano il territorio nazionale. La progressiva alterazione della natura delle autonomie regionali, cominciata con l’introduzione dell’elezione diretta dei presidenti e culminata con la riforma costituzionale del 2001, ha trasformato le nostre regioni in altrettanti centri di clientela e di sperpero, offrendo al malcostume nuovi spazi per esprimersi nella vita pubblica e aumentare il distacco tra società politica e società civile, contribuendo così in misura rilevante all’indebolimento della presenza dei principi costituzionali nel quotidiano degli italiani. Non sarebbe oggi possibile nemmeno progettare lo stravolgimento della Costituzione – non lo è stato per Berlusconi, uscito sconfitto dal referendum approvativo della riforma varata di concerto con la Lega nel 2006 – se questo paziente lavorio di svuotamento iniziato nel ’47 con la restaurazione scelbiana e culminato nella Seconda Repubblica non fosse giunto oggi, con le larghe intese, a piena maturazione.
Occorrerebbe poi trattare con la dovuta cura della recente costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio varata sotto il governo Monti e che è il cardine della politica di «austerità» antisociale imposta dalla trojka UE-BCE-FMI. Molto si è scritto sul tema, ed evidentemente la legge costituzionale del 2012 rappresenta un passaggio fondamentale nel processo di svuotamento dei contenuti della Carta costituzionale, con i quali è in patente contraddizione. Non ci pare opportuno dilungarci sul tema, molto attuale e ben conosciuto dai lettori, poiché ciò imporrebbe una trattazione più articolata, in questa sede non necessaria. Ci limiteremo perciò a questo breve richiamo.
Dunque un primo elemento: per salvare la Costituzione occorre proporre parole d’ordine che siano utili a restituirle presso le masse il senso originale. Allo stravolgimento autoritario e presidenzialista bisogna contrapporre la rivendicazione del ritorno alla Carta nella sua stesura del 1948 e della sua integrale applicazione.
Il problema fondamentale è però, a nostro avviso, un altro. Esso trae origine dal contesto stesso in cui la Costituzione nacque e che fu, ricordiamolo, quello della vittoria su scala non solo nazionale, ma planetaria, dell’antifascismo sul fascismo. Se sul piano internazionale ciò ha significato la disfatta della reazione organizzata del Capitale all’Ottobre sovietico che aveva portato la rivoluzione sociale tra i fatti concreti del mondo – non a caso le potenze «liberali» vincitrici saranno di lì a poco travolte dall’emergere del processo di decolonizzazione in Africa e Asia in particolare, che fu un processo rivoluzionario d’immensa portata -, sul piano interno il fattore decisivo fu quello dell’emersione di un nuovo protagonista della vita nazionale. Come rivelato in primo luogo dal grande sciopero generale del ’43, di cui quest’anno abbiamo celebrato i settant’anni, quel nuovo protagonista altri non era che la classe operaia – organizzata politicamente e sindacalmente – che contro la rovina cui le classi borghesi imperialiste avevano trascinato il paese con la guerra, veniva a proporsi come nuova classe dirigente e unica portatrice dell’interesse generale del popolo italiano.
Un richiamo storico necessario, quello che abbiamo appena fatto, perché serve a collocare i contenuti della Costituzione nel contesto che li produsse, così profondamente diverso dall’attuale e segnato dall’immenso prestigio acquisito nell’antifascismo clandestino e nella lotta di liberazione dalla classe operaia e dal suo partito, il Partito comunista italiano. Un fattore che le classi dominanti hanno ben presente nella loro azione politica, se si considera che poche settimane fa la grande banca d’affari statunitense JPMorgan ha diffuso un documento in cui indica come prioritario per i paesi dell’Europa continentale «farla finita con il retaggio dell’antifascismo e le costituzioni da esso nate».
La Costituzione, dunque, come frutto di un più avanzato equilibrio nei rapporti di classe. Un equilibrio che discendeva dalla diffusione, tra la classe operaia e le classi lavoratrici in generale, di una forte e definita coscienza di sé e dei propri compiti nella trasformazione secondo giustizia della società.
Oggi le cose sono evidentemente mutate in modo profondo. Le potenzialità egemoniche delle classi dominanti hanno raggiunto nella nostra società il loro punto apicale, determinando il processo di putrefazione della vita sociale e civile che è sotto i nostri occhi. Strumento ne è stata l’ideologia del desiderio, la riduzione dell’essere umano a «corpo senza organi», «macchina desiderante» che si aliena e sfrutta se stessa in funzione dell’adesione a modelli di consumo voluttuario capaci di farle percepire un senso illusorio di promozione sociale. Nella nuova fase aperta dalla crisi economica, come scrive il filosofo francese Michel Clouscard: «Alla permissività dell’abbondanza, della crescita, dei nuovi modelli di consumo, succedono le proibizioni della crisi, della penuria, della pauperizzazione assoluta. Queste due componenti storiche si fondono nelle teste, negli spiriti, creando le condizioni soggettive del neofascismo».
Questo il quadro in cui ci troviamo a operare. La risposta non può venire che da un intervento politico fondato sulla consapevolezza che il progresso sociale parte dalla risposta offerta ai bisogni materiali e dalla lucida comprensione dei rapporti di forza a livello strutturale. Se saremo capaci di coniugare efficacemente la lotta in difesa della Costituzione con quella contro la miseria che avanza, contro il bisogno che nega dignità all’essere umano, allora la nostra battaglia avrà successo. In caso contrario, se ci limiteremo a chiamare astrattamente alla difesa di una Carta sconosciuta alla gran parte dei cittadini italiani, non faremo che approfondire il nostro distacco dal corpo sociale, verremo sconfitti e sarà come sempre dal ventre dei ceti medi che si proletarizzano che verrà la richiesta di spingere l’autoritarismo che vediamo delinearsi fino alle sue estreme conseguenze.