Originalità e internità del comunismo italiano rispetto al movimento rivoluzionario internazionale
di Alessio Arena
Molto si è scritto, molto si è discusso ed argomentato in merito all’originalità del comunismo italiano nel quadro del movimento rivoluzionario internazionale. La radice di questa originalità la si rintraccia, con ragione, nel pensiero di Antonio Gramsci, il quale è oggi oggetto di una vera e propria campagna di manipolazione volta a sottometterne gli scritti a una lettura riformista, compatibile con lo stato di cose presente, controrivoluzionaria. E questo, paradossalmente, proprio nel momento in cui la dirompente carica rivoluzionaria di quel pensiero assume nuova vitalità, trovando applicazione pratica nei processi di trasformazione in atto in America Latina e guidando le azioni dei gruppi che li dirigono. Processi che mettono in discussione strutturalmente il sistema di relazioni economiche e sociali esistente e non si limitano ad attenderne la “fine naturale”, ma per essa operano nel quadro dettato dall’imperialismo giunto alla sua piena maturazione e nella situazione concreta – ideale, morale e materiale – specifica di ciascuna realtà nazionale.
Proprio per questo motivo, la questione del legame tra l’opera di Antonio Gramsci e il leninismo, non a caso oggetto di puntigliosa e ampia analisi da parte di Palmiro Togliatti, riveste una particolare importanza nel dibattito teorico e politico odierno: è sulla rimozione o sull’occultamento di questo legame che si basa buona parte dei tentativi di un’appropriazione o di una reinterpretazione di Gramsci in chiave idealistica e antimarxista. Il presente elaborato si propone di riassumere i tratti salienti di quell’analisi come contributo per inquadrare le peculiarità dell’azione del PCI sotto la guida di Togliatti non come frutto di particolarismo, ma al contrario come contributo proficuo della classe operaia italiana organizzata a un movimento necessariamente mondiale, entro il quale essa si distingue ma da cui non volle in nessun momento distaccarsi.
A questo fine ci riferiremo in particolare agli appunti redatti e all’intervento pronunciato in occasione di un convegno di studi gramsciani tenutosi a Roma nel gennaio del 1958, i quali rivestono una rilevanza particolare nel quadro dello sforzo per delineare i caratteri di specificità dell’esperienza teorica e politica del PCI. Ripercorrendone i contenuti si può dar conto non soltanto di come l’operato di Togliatti rispondesse a una ben precisa concezione teorica della lotta rivoluzionaria, maturata in modo determinante grazie alla lettura e all’interpretazione dei Quaderni gramsciani, ma anche di come essa rappresentasse un contributo di enorme importanza alla fase di lotta su scala planetaria apertasi con la fine della Seconda Guerra Mondiale in virtù dell’incarnarsi della lotta di classe nell’antinomia est-ovest e dell’affermarsi della Guerra Fredda come elemento di definizione delle relazioni internazionali e nazionali, se è vero che essa entrò nella politica italiana con la cacciata di comunisti e socialisti dal governo del paese nel 1947 e con l’avvio della fase della cosiddetta “restaurazione scelbiana” che avrebbe segnato il conflitto di classe successivo come scontro tra le forze della reazione, impegnate nello svuotamento della Costituzione prodotta dal venire a maturazione dell’antifascismo come elemento nuovo della vita nazionale e terreno dell’alleanza tra la classe operaia e la borghesia democratica, e i settori più avanzati della società, protagonisti della lotta per la sua applicazione.
Negli scritti richiamati, affermata la necessità di indagare l’opera di Gramsci e il suo rapporto con il leninismo a partire dall’inscindibilità tra l’aspetto filosofico e dottrinario e l’attività pratica, l’analisi togliattiana giunge ad una importante affermazione preliminare: tale unità è da ricercarsi nella politica, concepita come sostanza della storia e conseguentemente collocata al vertice delle attività umane. È così che essa acquista carattere di scienza, facendosi non più momento passionale né meschina mostra di abilità, ma «risultato di approfondita ricerca delle condizioni in cui si muovono le società umane, i gruppi che le compongono e i singoli. Giunge a comprendere, e quindi a giustificare storicamente, tanto l’avanzata quanto la ritirata o l’arresto, tanto la vittoria quanto la sconfitta. Alla base di questa comprensione vi è una critica di sé stessi e degli altri, che è momento ulteriore di azione»[1].
È su questa concezione scientifica della politica che Togliatti fonda la polemica contro coloro che vorrebbero trarre da Gramsci, e in particolare dai Quaderni, una sorta di Vangelo politico valido per ogni luogo e tempo. Il filo conduttore che lega tutta l’opera di Gramsci, dalla giovinezza fino agli anni della prigione, è da ricercarsi nell’attività reale.
L’essenza di questa visione della politica sta nel concepire pensiero e azione come momenti diversi e diverse forme della lotta per conoscere e trasformare lo stato di cose presente. L’elaborazione del pensiero è momento di lotta, l’azione è strumento conoscitivo della realtà. Agendo si apprende a conoscere, conoscere ed elaborare è un altro modo di lottare. La stessa stesura delle opere carcerarie è nel contempo risultato dell’esperienza di direzione politica compiuta da Gramsci nella prima metà degli anni ’20 e momento ulteriore di lotta.
Di qui scaturiscono, per il lettore attento al dibattito contemporaneo, due considerazioni. La prima riguarda l’infondatezza della posizione secondo cui vi sarebbe una cesura netta tra l’opera gramsciana precedente l’arresto e l’ispirazione dei Quaderni. Questa posizione, sostenuta per lo più nell’ottica di una rilettura in chiave riformistica degli scritti carcerari e ispirata al teorema del “ripensamento” di Gramsci rispetto alla dottrina rivoluzionaria, urta con l’intera concezione della politica che permea l’opera gramsciana e che Togliatti delinea in modo tanto efficace nella sua analisi. La seconda concerne invece il nesso inscindibile che passa tra l’affermazione del carattere scientifico della politica e la necessità d’iscrivere anche l’opera gramsciana nel suo contesto, pienamente restituendole la storicità che le più recenti letture meccanicistiche e dottrinarie vorrebbero toglierle.
Occorre, scrive Togliatti, ai fini di una piena comprensione dell’aspetto politico dell’opera di Gramsci, tenere strettamente presenti gli avvenimenti italiani e mondiali cui essa fa riferimento.
Si era passati – per usare la sua terminologia – dalla guerra manovrata alla guerra di posizione, dalla crisi drammatica del primo dopoguerra e dal primo vittorioso attacco rivoluzionario, ai tentativi di stabilizzazione dei regimi borghesi da una parte e alla costruzione di una società socialista dall’altra. La grande vittoria della Rivoluzione socialista dell’ottobre 1917 era uscita dalle contraddizioni oggettive del mondo capitalistico, le quali continuavano a esistere e svilupparsi. Esse agivano però in altro modo, mentre era in atto lo sforzo borghese di restaurazione riformistica e la classe operaia, consolidato il suo potere nello Stato sovietico, tendeva, con un’azione molteplice, ad affermare la propria egemonia in una competizione che era già di portata mondiale.[2]
La guerra di posizione è secondo Gramsci la fase più dura della lotta, la fase decisiva. Essa richiede enormi sacrifici alle masse, una enorme concentrazione dell’egemonia e una forma di governo più “intervenzionista”, che organizzi nella lotta contro le posizioni politiche regressive l’impossibilità della disgregazione interna dello Stato socialista. Da questa definizione del momento storico, afferma Togliatti, scaturiscono le riflessioni gramsciane sulla natura del potere in una società diretta dalla classe operaia e sui diversi modi di conservazione del potere da parte della borghesia.
In questa unità profonda dell’opera di Gramsci si evidenzia come la sua verità, la sua scientificità sia nel metodo, inscindibile dal contenuto perché marxista e leninista, cioè «guida all’azione rivoluzionaria nelle condizioni in cui si compie il passaggio dal mondo borghese al mondo socialista. Di qui discende il suo legame col leninismo, che è la dottrina rivoluzionaria di questo passaggio»[3].
Su dette premesse Togliatti procede nell’indagine dell’influsso concreto dello sviluppo della dottrina leninista e della sua diffusione nel movimento rivoluzionario internazionale e italiano sulla trasformazione di Gramsci da “triplice e quadruplice provinciale”, come egli stesso ebbe a definire il sé stesso dei primi anni a Torino, in dirigente politico di portata nazionale e internazionale.
Non negando la profondità dell’influenza esercitata sulla formazione di Gramsci dalla tradizione culturale e politica italiana di marca positivista, Togliatti individua l’elemento decisivo, capace di fargliene superare i limiti, nello studio del marxismo, nel contatto con la vita e le lotte del proletariato torinese dei primi decenni del ‘900 e infine nel leninismo, indicato come fattore definitivo di svolta.
Egli parte dall’affermazione che la portata della Rivoluzione d’Ottobre abbia introdotto una radicale modificazione del pensiero, investendo il modo d’interpretare il mondo delle relazioni sociali non solo dei dirigenti politici, ma anche degli uomini comuni, che essa abbia portato cioè il complesso dell’umanità a sviluppare nuove modalità di azione a partire da una nuova comprensione della realtà. Similmente a quanto era avvenuto con la grande Rivoluzione francese, la rivoluzione socialista condotta alla vittoria da Lenin – è questa una delle principali affermazioni di Gramsci in merito alla Rivoluzione d’Ottobre – crea un nuovo senso comune, un nuovo elemento di coscienza e nuove forme di giudizio generale.
L’apporto fondamentale d’innovazione che costituisce il contributo di Lenin allo sviluppo della dottrina marxista si compone, in sintesi, di tre elementi, tre capitoli tra di loro connessi che, nota Togliatti, contengono ciascuno una teoria e una pratica, ovvero che compongono una elaborazione che non si esaurisce nella propria formulazione, ma che viene sottoposta alla prova dei fatti tramite l’azione politica concreta e che attraverso la prova della storia viene precisata e depurata delle posizioni erronee, evolvendo attraverso una costante ricerca e azione creativa. Questi tre elementi sono da individuarsi nella dottrina dell’imperialismo concepito come fase suprema del capitalismo, nella dottrina della rivoluzione e conseguentemente dello Stato e infine, nella dottrina del Partito.
Finalità del presente contributo sarà affermare come in questi tre elementi, rielaborati secondo l’originalità del pensiero gramsciano, sia da ricercare la radice della specificità e del successo dell’azione politica svolta dal PCI sotto la guida di Togliatti. Essi costituiscono – sottolinea Togliatti – la definitiva sconfessione delle deformazioni cui il marxismo era stato sottoposto nei decenni precedenti la Rivoluzione d’Ottobre dallo svilupparsi del pensiero socialdemocratico, e dunque costituiscono la linea di demarcazione che divide l’azione riformista da quella rivoluzionaria. Sono essi a dare sostanza all’identificazione del PCI togliattiano come partito rivoluzionario e alla sua azione come la risposta pratica, nelle concrete condizioni italiane nel quadro della Guerra Fredda, per aprire la via della trasformazione socialista della società e dello Stato. Con essi viene superata la tesi dottrinaria secondo cui la rivoluzione proletaria non avrebbe potuto né dovuto compiersi se non nei paesi in cui il capitalismo avesse raggiunto il più alto grado di sviluppo delle forze produttive, si concepisce il sistema delle relazioni di dominazione come esteso a livello internazionale e si rafforza l’indicazione della funzione storica della classe operaia come motore della trasformazione.
Lenin respinge questa proposizione e apre a tutto il marxismo la strada di un nuovo sviluppo creativo affermando che la condizione della rottura rivoluzionaria è lo sviluppo e lo scoppio delle contraddizioni del capitalismo giunto alla sua fase imperialista.[4]
L’impressione profonda che gli avvenimenti russi esercitarono sul giovane Gramsci si manifesta in alcuni articoli scritti proprio nei giorni della presa del potere da parte dei Soviet. In particolare è del 24 novembre 1917 un articolo pubblicato da Gramsci sull’edizione milanese del Avanti!, organo del Partito Socialista Italiano, dal titolo La rivoluzione contro il “Capitale”. Se da un lato questo testo presenta una serie di errori ed equivoci relativi alla comprensione del rapporto tra il pensiero di Marx e la rivoluzione bolscevica – d’altra parte già testimoniati dal titolo – esso coglie tuttavia il fondamentale progresso, il salto qualitativo introdotto da Lenin nel dibattito teorico interno al movimento operaio ed esprime pienamente la sua sostanza. Scrive Togliatti, citandolo:
Il Capitale in Russia era diventato – si legge in questo articolo- “il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, s’iniziasse un’èra capitalistica, s’instaurasse una società di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi entro i canoni del materialismo storico”.
Qui è l’errore, ma non è di sostanza. Quella che Gramsci denuncia e respinge era stata, infatti, la falsa interpretazione che del materialismo storico avevano dato i cosiddetti marxisti legali.[5]
Osserviamo qui l’importanza di un elemento che Togliatti evidenzia nei successivi sviluppi della riflessione gramsciana sulla Rivoluzione d’Ottobre, che nei due o tre anni successivi evolve, anche in conseguenza dell’arrivo in Italia di alcuni fra i più importanti scritti leninisti, dei quali fino ad allora non si era avuta che una cognizione parziale, fino a superare i difetti e gli equivoci de La rivoluzione contro il “Capitale”: l’attenzione con cui Gramsci si dedica allo studio del nesso tra il momento internazionale e quello nazionale della rivoluzione.
È noto come già nel Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels, accanto all’affermazione della natura internazionale della lotta proletaria sia contenuta l’affermazione che «poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch’esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia»[6]. Si è anche già osservato come, sulla base della dottrina leninista dell’imperialismo, la rivoluzione in Russia sia da collegarsi a una trasformazione qualitativa della situazione internazionale data dalla rottura della catena dell’imperialismo. Ma la condizione soggettiva fondamentale che ha reso possibile la vittoria dei bolscevichi è consistita nella loro capacità di farsi compiutamente interpreti della società nazionale russa e del suo sviluppo storico e nel sapervi corrispondere sul piano politico, strategico e programmatico. Sintetizzando:
Le condizioni stesse del mondo capitalistico, giunto alla fase dell’imperialismo, creano le premesse generali della rottura rivoluzionaria, ma in ogni paese la rottura ha le sue premesse particolari, che vengono dalla sua storia.[7]
E ancora:
[Tali premesse non si possono conoscere] se non con una attenta analisi delle strutture economiche, di tutte le sovrastrutture della economia e delle influenze che le stesse sovrastrutture esercitano sopra l’economia stessa e su tutto il complesso del tessuto sociale.[8]
Da questa lettura dei fatti russi trae origine l’attenzione di Gramsci allo studio del Risorgimento, del ruolo che le varie classi vi svolsero e di come in conseguenza si siano determinate le condizioni concrete della nascita dello Stato unitario italiano. Di qui il giudizio sull’assenza di giacobinismo che caratterizzò le forze motrici dell’unità nazionale, che assume la forma non di una condanna espressa nei confronti dei ceti dirigenti borghesi, democratici e liberali, per non aver dato alla lotta per l’indipendenza e l’unità della nazione quel contenuto democratico radicale capace di determinare sul piano programmatico le condizioni per il coinvolgimento delle masse popolari, ma dell’analisi fredda e scientifica di cosa essi abbiano effettivamente fatto, finalizzata a comprendere con esattezza la struttura della società italiana e ad individuare le vie per innescare la trasformazione rivoluzionaria nelle concrete condizioni storiche nazionali. Una lezione che non a caso vive oggi nelle esperienze latinoamericane, se è vero che il chavismo ha fatto propria la parola d’ordine della “via venezuelana al socialismo” e che esso ha dedicato un grande sforzo, sulla direttrice già tracciata dal carattere martiano della Rivoluzione cubana, per riconnettere l’esperienza storica della lotta di liberazione condotta da Simón Bolívar contro la dominazione coloniale spagnola con la nuova fase della lotta di classe nazionale e internazionale per la conquista della società socialista. Una lezione dimenticata nella prassi politica della sinistra di classe italiana, se nel corso di un incontro di solidarietà con il Venezuela bolivariano tenutosi a Milano nell’aprile 2013 un dirigente di Rifondazione Comunista ha potuto testimoniare di come sempre Hugo Chávez ammonisse le delegazioni italiane che gli capitava d’incontrare circa la non sufficiente conoscenza del pensiero di gramsciano tra le forze di trasformazione nel nostro paese.
Tornando al Gramsci di Togliatti, è attraverso il percorso fin qui esposto che egli giunge alla definizione del concetto di “blocco storico” e all’individuazione di quello che si era venuto creando in Italia attraverso le diverse fasi della vicenda risorgimentale.
Siamo dunque di fronte a una concezione della struttura economica come campo d’azione di forze naturali, ma anche di forze umane, in un rapporto dialettico in cui pure le sovrastrutture agiscono e influiscono sulle fasi successive di trasformazione della stessa struttura. Viene in sostanza superata la visione meccanicistica del rapporto struttura-sovrastruttura che ancora contraddistingueva, ad esempio, l’approccio di Stalin e le cui conseguenze nella costruzione del socialismo sovietico meriterebbero uno specifico approfondimento. All’interno dell’elemento sovrastrutturale si articolano diversi gradi reciprocamente autonomi e, allo stesso modo, possono distinguersi momenti diversi della struttura. Scrive Togliatti:
Indicazioni preziose di Lenin, che dovevano spingere alla ricerca metodologica in questa direzione, non si trovano soltanto nella grande polemica leninista circa la natura dello Stato, ma anche negli scritti ultimi, contemporanei o posteriori al passaggio alla Nuova politica economica, e relativi ai compiti della costruzione socialista, ai problemi, ai contrasti, alle difficoltà che sorgono nel corso di questa costruzione e alle funzioni dello Stato (e della politica) in questo nuovo periodo della storia.[9]
La conclusione dell’analisi gramsciana porta ad un’affermazione fondamentale: quella dell’assoluta storicità della realtà sociale e politica.
Viene così in evidenza, seguendo lo schema logico adottato da Togliatti nella sua esposizione, la rilevanza fondamentale attribuita dalla dottrina leninista e gramsciana della rivoluzione alla nuova funzione che la classe operaia assume, a livello nazionale e internazionale, con l’apertura della fase della costruzione di un nuovo ordinamento sociale. Una funzione che troverà la sua piena estrinsecazione nella Resistenza, non a caso cominciata con il grande sciopero generale del marzo ’43, vero e proprio passaggio epocale nella storia della lotta di classe in Italia da cui nascerà, grazie alla strategia togliattiana, una Costituzione dalla natura di classe ibrida, frutto dei rapporti egemonici maturati nella lotta contro il fascismo e il nazismo come espressioni mature e violente della borghesia imperialista italiana e tedesca sconfitte nella Guerra Mondiale.
L’elevazione della classe operaia a classe nazionale, la funzione dirigente che essa deve adempiere nel processo storico e in virtù delle modificazioni determinatesi negli equilibri di classe come conseguenza dello sviluppo delle forze produttive, è diretta conseguenza dell’emersione di un nuovo blocco storico, ovvero di un nuovo rapporto tra struttura e sovrastruttura. In queste condizioni ha inizio il movimento tramite il quale la classe organizza la propria egemonia e prepara il proprio avvento al potere.
È qui che si evidenzia con chiarezza l’elemento fondamentale dell’analisi sviluppata da Togliatti nella sua opera ed elaborazione teorica, sulla scorta del pensiero gramsciano, cioè l’individuazione del carattere nazionale del punto di partenza di un’azione politica che si sviluppa in un’ottica internazionalista e verso l’internazionalismo: la classe operaia si fa classe dirigente nella misura in cui interpreta correttamente la combinazione di fattori, di cui essa stessa è componente, che compongono la realtà nazionale nella data fase storica e riesce, come avvenuto in Russia con la Rivoluzione d’Ottobre, a dirigerla e a offrirle una prospettiva.
È lo stesso carattere della fase imperialista del capitalismo a creare le premesse e ad esigere che la classe operaia si faccia classe nazionale. È infatti in questa fase che la borghesia cessa definitivamente di essere classe nazionale. L’esigenza dell’avvento di una nuova classe alla direzione della società e dello Stato scaturisce da questa nuova configurazione dei rapporti tra le classi, caratteristica dell’imperialismo.
Le classi borghesi cessano di essere nazionali quando diventano imperialiste. Alla difesa dell’interesse nazionale, dell’indipendenza e della libertà, esse sostituiscono allora la espansione violenta e la conquista, la soppressione dell’indipendenza e della libertà altrui, e così iniziano una evoluzione il cui punto di arrivo è la minaccia alla esistenza stessa della nazione, al destino della patria e della civiltà. La classe operaia diventa nazionale in quanto lotta contro l’imperialismo.[10]
Una posizione, questa, maturata evidentemente nel solco dello spartiacque teorico rappresentato dalla teoria leninista dell’imperialismo, che individua correttamente il quadro nazionale come il terreno della lotta per il potere politico condotta dalle classi lavoratrici. Non a caso l’asse portante della strategia reazionaria nel dopoguerra in tutta l’Europa occidentale è stato il processo d’integrazione continentale nel quadro dei trattati che gradualmente sarebbero andati a comporre l’Unione Europea. Le caratteristiche delle sue istituzioni, giunte oggi a maturazione, rispondono alla necessità di sottrarre all’antagonismo di classe il terreno della lotta per il potere politico diluendolo in un quadro territoriale e istituzionale la cui disomogeneità storica è tale da rendere impossibile padroneggiarlo politicamente e indirizzarlo. «La decostruzione degli Stati corrisponde alla strategia del Capitale del dopoguerra. Il suo riscontro filosofico consiste nella “distruzione della ragione” e della nozione di progresso. L’Ideologia Europea, compresa la sua componente pseudo-umanista, compie questo processo e si presenta come utopia realizzata di una fine trionfale della Storia. L’homo europeanus è lo happy dog di Fukuyama, ultima parola della civiltà liberista»[11]. Una tendenza che analizzata a decenni di distanza, pienamente giustifica l’opposizione del PCI di Togliatti ai primi trattati europei, denunciati allora, con ragione, come manifestazione della politica aggressiva del blocco atlantico contro l’Unione Sovietica e i suoi alleati dell’Europa orientale.
Per adempiere alla propria funzione nazionale la classe deve, organizzando la propria egemonia, porsi e risolvere il problema del rapporto di alleanza da instaurare con altri gruppi sociali. Conseguenza pratica di ciò è in Gramsci l’indicazione della ricerca di una soluzione alla questione meridionale attraverso un’alleanza tra la classe operaia settentrionale e le masse contadine e bracciantili del sud, finalizzata alla lotta contro il capitalismo nazionale e lo Stato borghese, scaturito attraverso il processo di unificazione nazionale come risultato della saldatura tra gli interessi della borghesia industriale del nord e la casta latifondista post-feudale del Mezzogiorno.
Vi è in questo un collegamento tra le posizioni di Gramsci e la polemica di stampo meridionalista condotta da Gaetano Salvemini, da cui l’analisi gramsciana muove per giungere però a conclusioni nuove.
Il concetto di alleanza elaborato da Gramsci è qualitativamente diverso, dal punto in cui anche Salvemini era giunto nella sua agitazione politica. non si tratta più, infatti, di qualche cosa di strumentale. Non è che l’operaio attenda un aiuto dal contadino, e il contadino, a sua volta, dall’operaio, per combattere quel sopruso o realizzare quella rivendicazione. No, si tratta di un’alleanza di classe secondo il concetto leninista, cioè di un nesso fondamentale, organico, il quale diventa la base di un nuovo blocco storico. Si tratta di una nuova unità di forze di classe la quale si afferma nella lotta contro l’attuale classe dirigente e si realizza con la presa del potere della classe operaia alleata delle grandi masse contadine.[12]
Pur nell’individuazione dei limiti storici di quell’esperienza, Togliatti sottolinea in diversi suoi scritti come la maturità di questa visione della funzione della classe operaia fosse già raggiunta nel movimento torinese dei Consigli di fabbrica, diretto e ispirato da Gramsci negli anni 1919-20.
La funzione dirigente della classe operaia nella società nazionale e il suo avvento al potere non si ponevano più nei termini della rivolta anarchica o della impotente protesta massimalistica, ma come problema di una alleanza tra gruppi sociali diversi, egualmente interessati a battere e cacciare dal potere il vecchio blocco industriale-agrario su cui si erano retti, attraverso formule politiche diverse, tutti i governi italiani, sia prima che dopo l’inizio del secolo.[13]
In questo modo venivano a innestarsi l’una nell’altra la lotta per il rinnovamento democratico della nazione e quella per la trasformazione socialista, unite nell’azione dei gruppi sociali che si muovevano per il loro perseguimento.
Venivano così previste le basi di un blocco sociale sostanzialmente democratico, il cui programma scioglieva i nodi che nel Risorgimento non erano stati sciolti […]. La classe operaia, incorporando nel suo piano d’azione la soluzione di questi problemi, poteva mettersi di fatto alla testa di tutte le forze potenzialmente anticapitalistiche e realizzava una nuova unità di azione, prima di tutto, con le grandi masse popolari del Mezzogiorno e delle isole. L’abbattimento del regime capitalistico diventava un compito nazionale, indispensabile per lo sviluppo delle forze produttive e per il progresso di tutta la società italiana.[14]
Si noterà come ancora una volta, nella dottrina della funzione nazionale si possa riscontrare un assunto teorico generale, ovvero quello riguardante la necessità e la natura delle alleanze stabilite dalla classe operaia, unito alla concreta valutazione e indicazione di quali alleanze fossero possibili e necessarie nel contesto storico in cui Gramsci agiva e che sottoponeva al proprio studio. Si noterà come alla base di tutto il discorso sia una comprensione profonda delle leggi che regolano lo sviluppo della Storia e come l’indicazione della funzione nazionale della classe operaia assuma un carattere di universalità di cui la coniugazione nella realtà dei singoli Paesi e delle varie fasi storiche rappresenta un passaggio necessario, ma ulteriore. Dall’analisi dei processi storici, cioè, si desume un’indicazione fondamentale che deve servire per porsi in condizione di comprenderli e dirigerli.
La lezione circa la funzione nazionale, troverà nel Togliatti artefice della creazione del “Partito nuovo”, inteso come partito di massa che rifiuta il chiuso classismo corporativo per costruire intorno alla classe operaia quell’alleanza di forze capace di creare le condizioni per l’emersione di un nuovo blocco storico nella situazione concreta della società nazionale, la maggior compiutezza e applicazione. È nel solco di questa ricerca che s’inserisce il discorso del 1946 ai comunisti emiliani circa il rapporto tra classe operaia, partito di classe e ceto medio, che applica e approfondisce la lezione gramsciana a un gruppo sociale nei confronti del quale il vecchio marxismo meccanicista sempre si era rapportato con un’aprioristica e controproducente ostilità, incarnata nella sua espressione più piena dalle tesi di Trotzkij, ultimo riverbero nel movimento comunista del meccaniscismo dottrinario e del formalismo della Seconda Internazionale.
È appena il caso di sottolineare l’attualità e la vitalità di quest’impostazione nel nostro tempo, quando la natura stessa delle ristrutturazioni intervenute nei processi di produzione nei paesi a capitalismo avanzato pone ai partiti che si propongono di organizzare una classe operaia frammentata, ma ancora in possesso delle caratteristiche che la definiscono come elemento fondamentale della nostra epoca e dell’ampiezza per essere, sul terreno delle lotte sociali, il motore del rinnovamento e della trasformazione, la questione di una seria e approfondita elaborazione circa le forze materiali che si muovono nella società e le vie attraverso cui determinarne un’azione comune finalizzata all’individuazione di un’uscita di natura progressiva alla crisi profonda del capitalismo contemporaneo.
Cadono dunque, alla prova dell’analisi, tutte le vuote elucubrazioni in cui numerosi partiti comunisti e di sinistra si sono smarriti in questi anni in diversi paesi d’Europa, e risulta evidente come siano zoppicanti e incongrui tutti quei progetti di “unità della sinistra” che affondano le radici in un soggettivismo esasperato, in un’ostinata tensione al raggruppamento disomogeneo di organizzazioni tramite la sostituzione dell’analisi dei rapporti sociali con il feticcio della fusione tra apparati sempre più ristretti perché sempre più avulsi dalla realtà. Gli elementi per respingere queste opzioni stanno nella realtà, nella necessità di una classe capace di assumere una funzione nazionale attraverso l’unità tra tutte le forze sociali mobilitabili nella lotta per il mondo nuovo.
L’analisi di Gramsci circa la funzione degli intellettuali, sottolinea Togliatti, ha a sua volta un fondamento leninista, consistente nella dimostrazione storica e nell’approfondimento dell’impegno politico e sociale di classe degli intellettuali. Essa è organicamente collegata alla questione del blocco storico.
Gli intellettuali fanno parte di un blocco storico, sono fattore di unità della struttura e della sovrastruttura.[15]
Il problema degli intellettuali si pone su un piano analogo a quello della formazione delle ideologie e delle sovrastrutture. In Gramsci viene superata la visione delle ideologie come mero strumento di direzione politica. Esse sono viceversa concepite come parte integrante dello sviluppo storico, cioè come quelle “volgarizzazioni” filosofiche capaci spingere le masse all’azione per trasformare l’esistente.
Ogni ideologia è assieme caduca e storicamente valida. La caducità è espressione di un passato, ma è la lotta stessa delle classi lavoratrici che decide ciò che del passato deve essere distrutto.[16]
L’ideologia quindi è elemento che si qualifica contemporaneamente come soggetto ed oggetto della dialettica storica, ma anche come fonte di una pulsione alla conoscenza, alla ricerca scientifica e alla creazione artistica senza la quale il progresso umano non sarebbe possibile. Ciò si determina su un terreno, quello della cultura, in cui perpetuamente si sviluppa, in stretta connessione con i processi politici e sociali, una lotta continua tra conservazione e rivoluzione, un contrasto che genera continuamente nuova ricerca e apre sempre nuove frontiere.
Ecco una chiave di lettura per interpretare la crisi profonda che attraversa anche il mondo della cultura e della creazione artistica nei nostri tempi: l’imporsi di un pensiero unico di marca conservatrice, di una cappa ideologica reazionaria che tutto avvolge e soffoca, ha posto le condizioni perché nella società contemporanea, in particolar modo nelle vecchie potenze occidentali e in misure mai conosciute nel passato, si determinasse una netta prevalenza della conservazione sulla rivoluzione, della stasi sul movimento. Così come sul terreno dei rapporti economici il prevalere dell’ideologia della “fine della storia” ha comportato un inaridimento della capacità delle masse di difendere ed ampliare le proprie conquiste democratiche, determinando il loro superamento verso nuove forme di autoritarismo e di regresso economico e politico, nel campo della cultura, salvo eccezioni, la riproposizione manieristica delle conquiste del passato si è imposta sulla ricerca libera di nuove forme di espressione e creazione, sotto il tallone di ferro di un mercato che chiede non rinnovamento, ma prodotti da commercializzare. La prosecuzione delle ardite sperimentazioni artistiche e letterarie degli anni del conflitto è rimasta nelle mani della generazione che per prima le aveva prodotte. La stessa ricerca scientifica è stata definitivamente assoggettata alle esigenze dell’impresa privata, affidata in gestione al controllo dei grandi baroni, mentre in molti paesi, a cominciare dall’Italia, sono tornati a manifestarsi fenomeni di oscurantismo che sono giunti a ispirare la legislazione dello Stato, come nel caso della legge che limita la fecondazione assistita e la libertà di ricerca sulle cellule staminali embrionali.
Torna dunque a proporsi, nel tempo presente, la questione intellettuale, e torna a farsi forte l’esigenza di una nuova fase di conflitto di classe organizzato su solide basi teoriche, per creare le condizioni di una profonda crisi del mondo della cultura come si configura oggi e dare luogo, anche sul piano intellettuale e morale, a un sommovimento rivoluzionario capace di rivitalizzare e spingere in avanti la ricerca e la creazione.
Le crisi rivoluzionarie spezzano questo blocco storico. Anche la cultura, quindi, ha le sue crisi totali e l’avanzata, sulla base di una nuova struttura organica, di una nuova classe dirigente, postula una profonda riforma intellettuale e morale. La filosofia marxista è condizione e premessa di questa riforma. Essa dà agli intellettuali la consapevolezza della loro funzione; li rende fattori coscienti della evoluzione sociale.[17]
Si giunge così all’argomento trattato nell’ultimo punto delle note togliattiane su Gramsci e il leninismo: quello dedicato alla teoria del partito e a quella della dittatura di classe come condizione per l’edificazione della società socialista. È questo, a parer nostro, un punto che riveste un’importanza particolare nel dibattito teorico odierno per la chiarezza con cui affronta un tema che, nell’ottica della compatibilità con l’attuale stato di cose e nel contesto dell’integrazione per via istituzionale nel novero delle forza “di governo”, i due partiti comunisti italiani hanno occultato, quando non apertamente rinnegato. È viceversa questa parte dell’elaborazione teorica del movimento comunista che più profondamente ne marca il carattere rivoluzionario. È qui che si delinea e prende corpo una nuova concezione della libertà, ma anche l’indicazione della via e del metodo concreto per giungervi.
È storia assai vecchia che alla concezione marxista della storia si può anche aprire uno spiraglio, accettarla come un metodo, una indagine sociologica sulla lotta delle classi, o simili, ma la si respinge quando si presenta o vuole essere riconosciuta come dottrina politica completa, cioè guida all’azione rivoluzionaria.[18]
Davvero non c’è modo migliore di descrivere la degenerazione teorica e politica degli ultimi anni di storia dei comunisti italiani di quella contenuta in queste righe. Una degenerazione cui fa riscontro l’entusiasmo paradossale con cui si accoglie la “riscoperta” di Marx da parte del nemico di classe, che d’altra parte non se n’era mai dimenticato, nel momento stesso in cui ci si trincera dietro parole d’ordine keynesiane nel momento stesso in cui la crisi le svuota di significato pratico ed esse vengono finanche messe fuori legge, mediante la costituzionalizzazione della regola d’oro del pareggio di bilancio in tutta Europa.
La teoria del partito e quella della dittatura di classe sono dunque, già nel pensiero leninista, strettamente connesse. Il punto di partenza comune è nel rifiuto della tendenza dell’ideologia borghese di attribuire alle forme di organizzazione dello Stato e alle conquiste della democrazia liberale un valore assoluto. A ciò Lenin fu condotto dalla comprensione e analisi del contenuto di classe dello Stato.
Il nesso è evidente. La classe rivoluzionaria si organizza in Partito per poter fare dello Stato uno strumento della propria azione rivoluzionaria e quindi per affermare la propria direzione su tutta la vita sociale. Ma lo Stato che essa crea è, nella storia, una formazione del tutto nuova, perché alla sua base vi è una struttura economica che sopprime lo sfruttamento e l’anarchia della produzione.[19]
Il nuovo assetto strutturale su cui si fonda lo Stato sorto dalla presa del potere da parte delle classi lavoratrici dà dunque al concetto di “democrazia” un nuovo significato, poiché in esso si supera la contraddizione di classe e si creano le condizioni per l’allargamento della base del potere a tutti i produttori.
In Gramsci, su questa traccia, si trova la netta distinzione tra il concetto filosofico di libertà e le forme e gli istituti della democrazia liberale.
Il rivolgimento borghese è affermazione di libertà, ma già contiene in sé l’elemento negativo, cioè la cristallizzazione e poi la conservazione di istituti economici e politici in cui si attua il dominio borghese. Confondere il liberalismo, l’ordinamento democratico parlamentare, il sistema della divisione dei poteri, ecc. con la libertà filosofica è confondere la ideologia con la filosofia.[20]
E ancora:
Il dominio del mondo economico, che è il contenuto della società socialista, spezza il più duro di questi limiti (i limiti alla libertà umana, N.d.A.), quello che nega alla maggioranza degli uomini lo sviluppo pieno della loro persona, e questo è un primo passo verso il mondo della libertà.[21]
Lo sviluppo sociale s’indirizza in questo senso attraverso un movimento che parte dalla struttura, movimento entro il quale s’inserisce lo sviluppo di una volontà collettiva, si rende evidente la necessità storica del regime dei partiti e conseguentemente della corrispondenza tra l’affermarsi della classe operaia come classe dirigente e l’affermarsi sul piano politico del partito che della classe operaia è espressione. Ecco le radici teoriche su cui affonda la concezione togliattiana che guarda ai partiti come alla “democrazia che si organizza”, ossia come alla forma organizzativa concreta che assume la partecipazione delle masse alla vita pubblica, che ha avuto il suo atto etimologico nella Rivoluzione francese e che dalla Rivoluzione sovietica, portatrice di una nuova concezione dell’eguaglianza sociale pienamente espressa dal secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, ha tratto un significato nuovo, di classe. Un utile elemento di riflessione, nella fase attuale caratterizzata da un assalto all’arma bianca contro la forma partito che ha una precisa funzione nel progetto d’involuzione autoritaria condotto dalle classi dominanti e cha ha il suo perno nelle nuove forme dell’autoritarismo tecnocratico incarnato dai governi Monti e Letta.
La spiegazione di tutto questo è semplice: se per la classe borghese, che è classe dominante, il partito politico è elemento sussidiario di un dominio che nasce e si attua nel modo di produzione, per la classe operaia esso diventa non lo strumento unico, ma il principale. Privare le classi subalterne dell’organizzazione politica determina un’alterazione decisiva a favore delle classi dominanti nello scontro di classe. In altre parole, quello cui assistiamo quotidianamente nel momento attuale.
Quanto ai caratteri del partito della classe operaia, sorgono a questo punto questioni che richiedono una riflessione e un’attenzione particolari, poiché il radicarsi della visione che di esso fornisce la propaganda borghese, la sua penetrazione nelle fila stesse del movimento comunista e l’influenza che ciò ha avuto sulla disgregazione e la riduzione all’impotenza di alcuni dei principali partiti comunisti dell’occidente europeo è tema di stringente attualità e d’importanza capitale, se ci si pone l’obiettivo d’invertire la tendenza in atto e riguadagnare il nesso indispensabile tra classi lavoratrici e partito di classe.
Il partito è un “intellettuale collettivo”, perché una classe subalterna, la quale voglia affermare la propria egemonia e giungere alla conquista del potere non vi giunge spontaneamente, senza una direzione. […]
Dallo sviluppo di questi concetti egli (Gramsci, N.d.A.) deriva le norme fondamentali della vita del partito stesso: la fedeltà, la disciplina, la unità interna, il carattere, in pari tempo, internazionale e nazionale del movimento […].[22]
La differenza rispetto al costume che si è affermato negli ultimi decenni in numerosi partiti dell’occidente europeo è evidente. Alla concezione del partito come “intellettuale collettivo” si è voluta sostituire la frantumazione dell’unità interna, alla ricerca della sintesi tra le diverse sensibilità e punti di vista si è contrapposto l’impulso alla creazione di correnti ossificate, impermeabili l’una all’altra. Tutto questo ha lasciato campo libero a uno snaturamento della funzione storica e della visione strategica che ha consentito l’incessante auto-riproduzione di gruppi dirigenti sempre più avulsi dalla realtà e la sistematica esclusione di ogni area di dissenso dall’influenza rispetto alle scelte politiche, strategiche e tattiche. Semplicemente, questi partiti sono divenuti l’area di realizzazione della dittatura della maggioranza, mettendo in crisi la natura stessa di “libera organizzazione di classe” fondata e diretta in funzione della realizzazione di un programma politico condiviso, che è stata propria dei partiti comunisti sin dalla loro fondazione.
Il punto fondamentale di questa cesura, effetto di quella che, con Michel Clouscard, si può definire la controrivoluzione liberista-libertaria che ha avuto nell’estrema sinistra del ’68 la sua attrice, è l’abbandono della teoria leninista del partito, la sconfessione e la demonizzazione della disciplina rivoluzionaria che il movimento operaio aveva appreso dalla dura lezione del lavoro organizzato nella fabbrica e che ne aveva costituito il vero punto di forza e di coesione.
Il recupero della disciplina e dell’unità interne come punto di partenza per dare vita a una nuova fase espansiva del movimento comunista nell’Europa occidentale deve necessariamente passare attraverso un chiarimento sui loro contenuti e natura concettuale. Scrive Gramsci:
Come deve essere intesa la disciplina, se si intende con questa parola un rapporto continuato e permanente tra governanti e governati che realizza una volontà collettiva? Non certo come passivo e supino accoglimento di ordini, […] ma come una consapevole e lucida assimilazione della direttiva da realizzare. La disciplina pertanto non annulla la personalità in senso organico, ma solo limita l’arbitrio e l’impulsività irresponsabile, per non parlare della fatua volontà di emergere. […] La disciplina pertanto non annulla la personalità e la libertà: la questione della “personalità e libertà” si pone non per il fatto della disciplina, ma per l’“origine del potere che ordina la disciplina”. Se questa origine è “democratica”, se cioè l’autorità è una funzione tecnica specializzata e non un “arbitrio” o una imposizione estrinseca ed esteriore, la disciplina è un elemento necessario di ordine democratico, di libertà. Funzione tecnica specializzata sarà da dire quando l’autorità si esercita in un gruppo omogeneo socialmente (o nazionalmente); quando si esercita da un gruppo su un altro gruppo, la disciplina sarà autonoma e libera per il primo, ma non per il secondo.[23]
Ciò che le varie “svolte” hanno ingenerato in diversi partiti comunisti è appunto questo: le loro maggioranze hanno inteso costituirsi come tali, smentendo e svuotando di significato il principio della sintesi, e imporre alle minoranze, escluse dalla definizione della linea politica, una disciplina estrinseca, “da un gruppo a un altro gruppo”. Un cedimento decisivo all’egemonia borghese, perché intacca e rende inutilizzabile per la classe il suo principale strumento nella lotta per il potere politico, i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti e non potranno essere eliminati se non sulla base del pieno recupero del concetto di disciplina come principio organico del partito inteso come “intellettuale collettivo”, come elemento costitutivo di un nuovo modo di essere liberi, il cui potenziale di liberazione sia dato dalla comune ricerca e azione per influire su una società assoggettata alla dittatura di classe del Capitale e trasformarla.
Si è detto che la funzione di un partito inteso e organizzato in tal senso è quella di condurre le classi lavoratrici alla conquista del potere politico e di organizzarne l’egemonia. A proposito di quest’ultimo concetto, l’analisi togliattiana precisa come non vi sia una differenza di sostanza con quello di dittatura di classe. Il concetto di egemonia, più generale, si riferisce prevalentemente ai rapporti che si attuano nella società civile, mentre quello di dittatura di classe fa riferimento alla società politica. La differenza tra società civile e politica non è però organica, bensì metodologica.
Ogni Stato è una dittatura, e ogni dittatura presuppone non solo il potere di una classe, ma un sistema di alleanze e di mediazioni, attraverso le quali si giunge al dominio di tutto il corpo sociale e del mondo stesso della cultura, così come ogni Stato è anche un organismo educativo della società, negli obiettivi delle classi che dominano.[24]
I momenti di maggiore distacco tra società civile e società politica, determinati dal contrasto tra struttura e sovrastruttura, corrispondono all’affermarsi di forme dittatoriali. Ciò avviene nelle fasi di rottura rivoluzionaria, in cui si ha “una forma estrema di società politica”[25], finalizzata o alla stabilizzazione violenta dello status quo, o ad affermare una nuova configurazione dei rapporti sociali e politici e a vincere la reazione delle strutture precedenti.
Il processo di svuotamento e liquidazione della Costituzione attualmente in corso, che trova nella recente deroga all’articolo 138 per dar vita a una commissione di quarantadue parlamentari nominati investita di fatto di un vero e proprio potere costituente il suo punto di caduta, parla proprio di questo. Alla crisi organica del capitalismo – che di per se dovrebbe essere condizione oggettiva per una rottura rivoluzionaria – cui fa riscontro il collasso degli istituti della democrazia politica nell’ambito della società borghese, corrisponde attualmente la difficoltà di prefigurare, quantomeno nel contesto nazionale italiano, il “nuovo che nasce”. E questo in virtù di un’incapacità soggettiva che è demerito nostro e cui c’incombe di dare soluzione. L’attualità del pensiero di Gramsci e dell’insegnamento di Togliatti, la comprensione del loro nesso inscindibile con il leninismo, son uno strumento imprescindibile per delineare una pratica rivoluzionaria capace di dar soluzione alle esigenze del momento storico.
[1] Palmiro Togliatti, Scritti su Gramsci, Editori Riuniti, Roma 2001, pagg. 213-214
[2] Ibid, pag. 215
[3] Ibid, pag. 217
[4] Ibid, pag. 221
[5] Ibid, pag. 245
[6] Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, in Opere complete vol.VI, Editori Riuniti, Roma XXX pag. 503
[7] P. Togliatti, Scritti su Gramsci, pag.247
[8] Ibid
[9] Ibid, pag. 223
[10] Palmiro Togliatti, Il Partito Comunista Italiano, Editori Riuniti, Roma 1961, pagg.83-84
[11] Benjamin Landais, Aymeric Monville, Pierre Yaghlekdjian, L’idéologie européenne, Editions Aden, Bruxelles 2008, pag. 15
[12] Scritti su Gramsci, pagg. 251-252
[13] P. Togliatti, Il partito comunista italiano, pag. 31
[14] Ibid
[15] Scritti su Gramsci, pag. 229
[16] Ibid
[17] Ibid, pag. 230
[18] Ibid
[19] Ibid, pag. 231
[20] Ibid
[21] Ibid
[22] Ibid, pag. 255
[23] Antonio Gramsci, Quaderni dal carecere, Q. 14, P. 1706-1707
[24] Scritti su Gramsci, pag. 233
[25] Gramsci, Q. 7, p. 876