di Alessio Arena
Il tenore avvilente del dibattito sulla formazione della lista italiana a sostegno della candidatura di Alexis Tsipras alla presidenza della Commissione europea, con le evidenti analogie rispetto al processo di formazione di Rivoluzione Civile, sta ottenendo un duplice risultato: da un lato fiaccare e scoraggiare ulteriormente lo spirito dei militanti del nostro Partito, vittime ancora una volta della coazione a ripetere che muove i passi del gruppo dirigente ferreriano (ma anche di Essere Comunisti), e dall’altro – cosa perfino più grave – occultare ancora una volta la questione di fondo relativa al processo d’integrazione europea e all’europeismo in generale. Siamo in presenza di una patente dimostrazione dell’incapacità dei comunisti italiani non solo di praticare, ma persino di pensare una battaglia egemonica. La liquidazione delle coordinate teoriche essenziali del marxismo e del leninismo, punto nodale della fase iconoclasta del bertinottismo, produce il suo frutto mostruoso: la totale integrazione di Rifondazione Comunista nello stato di cose presente, resa evidente dall’interiorizzazione delle parole d’ordine, delle priorità e dello stesso orizzonte ideologico delle forze politiche espressione delle classi dominanti.
Il dibattito sulla parola d’ordine dell’unità dell’Europa è presente nel movimento operaio sin da tempi remoti: se per bocca di Karl Kautsky la Seconda Internazionale giunse a inizio secolo a teorizzare un “ultraimperialismo” europeo capace di calmierare le tensioni interimperialiste tra le potenze del Continente, regalando a quest’ultimo nel suo insieme una fase di pace, il trotzkismo impugna da sempre la parola d’ordine degli “stati uniti socialisti d’Europa” come risposta alle diseguaglianze nello sviluppo delle forze produttive e alla conseguente “impossibilità” di una rivoluzione socialista vittoriosa nei paesi più arretrati. Questo punto di vista è stato ripreso di recente nel dibattito interno al nostro Partito dalla frazione di Falce e Martello a proposito delle prospettive della lotta politica in Grecia in particolare.
Negli ultimi quarant’anni, l’emersione e lo sviluppo del cosiddetto “eurocomunismo” (di cui pure il settore principale di Syriza è erede, e che ispira essenzialmente il nostro Partito) ha definito una terza posizione di marca europeista a sinistra: quella secondo cui sarebbe possibile, nel quadro dell’Europa continentale, elevare a un livello sovranazionale le lotte sociali e costruire così, dentro il capitalismo, un livellamento verso l’alto dei diritti nei paesi che compongono il continente e quindi un generalizzato progresso sociale nell’ottica di una trasformazione progressiva dello stato di cose. L’epoca delle “piccole patrie”, ci viene detto, è definitivamente tramontata. Pensare di tutelare gli interessi delle classi popolari sul terreno del vecchio Stato nazionale sarebbe impossibile, utopico, minoritario e di retroguardia. In alcuni momenti, questa concezione è sfociata in un risultato molto simile al già citato “ultraimperialismo” della Seconda Internazionale d’inizio secolo: ci riferiamo in particolare alla fase più europeista del Pdci, giunto nel 2005 a votare a favore della ratifica della “Costituzione europea” di Giscard da parte del Parlamento italiano in nome della costruzione di un polo politico, economico e militare europeo da contrapporre al dominio unipolare degli Stati Uniti. Dal canto suo il Prc, che pure ha saputo tenere una posizione coerente nell’opposizione all’Unione Europea neoliberista, ha sposato completamente la tesi di “un’altra Europa possibile”, facendosi promotore del Partito della Sinistra Europea nel quadro della spinta integrazionista proveniente dalle istituzioni dell’UE, che erogano abbondanti sovvenzioni per spingere alla costituzione di “partiti europei”. In sintesi, la fondazione e la promozione della SE si collocano organicamente e consapevolmente nella prospettiva dell’integrazione nelle istituzioni europee con cui si sostiene di voler rompere. Il “non gettar via il bambino con l’acqua sporca” si traduce in sostanza in un atteggiamento acquiescente nei confronti dell’UE così com’è, e questo malgrado la SE coinvolga anche alcuni partiti che operano in paesi ancora esterni all’Unione: una circostanza che si direbbe rimandare più a un loro coinvolgimento nella dialettica comunitaria che non a un’estensione della lotta emancipatrice e a un suo coordinamento a livello continentale.
L’infondatezza della prospettiva di lotta nel quadro dell’Unione Europea per “un’altra Europa possibile” ci pare dimostrata in tutta evidenza, nell’attuale fase di crisi. I diritti sociali regrediscono un po’ ovunque, si accentuano gli squilibri nello sviluppo economico tra i paesi dell’Unione, vengono in luce i risultati della politica di asservimento coloniale dei paesi “periferici” che la compongono rispetto agli interessi del capitale monopolistico delle potenze dominanti (a cominciare naturalmente dalla Germania). La pressione corruttrice delle istituzioni UE, il frutto dei poderosi investimenti in denaro realizzati, si evidenzia nell’asservimento della stragrande maggioranza del sindacalismo europeo alle logiche concertative, spinto ai massimi livelli dalla creazione, voluta e finanziata a livello comunitario, della Confederazione Europea dei Sindacati (CES).
Occorre dunque, a nostro avviso, fare un passo indietro analitico e riconsiderare un assunto fondamentale: quello secondo cui sarebbe possibile un livellamento delle condizioni economiche e sociali tra le diverse nazioni d’Europa sulla base di uno sforzo coordinato che si appoggi anche sulla presenza nella dialettica delle istituzioni UE.
I nostri classici ci forniscono in questo senso alcune indicazioni determinanti. Se Marx avvertiva che il proletariato non ha patria, ma per le condizioni storiche del suo sviluppo è profondamente nazionale, anche se non nel senso borghese del termine, l’analisi gramsciana ha sviluppato fino in fondo questa indicazione metodologica, evidenziando come le vie e le forme per lo sviluppo del processo rivoluzionario vadano ricercate nel concreto processo storico di formazione vissuto dalle singole società nazionali. L’elaborazione della teoria leninista dell’imperialismo ha infine mostrato come in questa fase del suo sviluppo la borghesia monopolista, elevando i propri interessi su un piano sovranazionale, rompa con la nazione, risultato storico della fase progressiva delle rivoluzioni borghesi, divenendo antinazionale e trascinando la nazione alla rovina: spetta in questa fase alle classi lavoratrici di elevarsi a classi nazionali e indicare al complesso delle società in cui esse operano la via della salvezza e del progresso, in un’ottica internazionalista che per avere un contenuto deve da un lato fare proprio il concetto di nazione come formazione storica, dall’altro fare di quella specificità un contributo alla lotta aperta in tutto il mondo per l’emancipazione del lavoro come via per la piena emancipazione dell’Umanità dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Se poi si prende in considerazione la formazione dell’idea di unità europea nell’ambito dell’ideologia borghese, in un’ottica di consapevole, voluta, ricercata contrapposizione rispetto all’internazionalismo proletario, allora essa potrà essere riassunta dal Nietzsche di Al di là del bene e del male, che scrive: «Io auspico un tale aggravamento del pericolo russo che l’Europa debba risolversi a farsi minacciosa e, per mezzo di una nuova casta che regni su di essa, forgiarsi una volontà unica, una volontà propria, terribile e durevole, capace d’imporsi per millenni; l’Europa metterebbe così finalmente termine alla commedia, che è durata fin troppo, della sua divisione in piccoli Stati e delle sue velleità divergenti, dinastiche o democratiche. Il tempo della piccola politica è passato: il prossimo secolo porterà già la lotta per la dominazione universale – l’obbligo di una grande politica». Né più né meno che l’esplicitazione del retropensiero di chi sostiene la necessità di un’Europa unita che sappia essere competitiva nei confronti delle potenze emergenti.
Il nostro ragionamento conduce a una risposta alla domanda circa la possibilità di “un’altra Europa”. Diremo dunque che dentro il capitalismo essa è semplicemente impossibile, che dal capitalismo si esce con una lotta che parte necessariamente dal livello nazionale, unico livello ipotizzabile sul quale le classi subalterne possano lottare per il potere politico, e che una volta che una o più nazioni dovessero avviarsi sulla via della costruzione di una società socialista, l’orizzonte europeo sarebbe per esse angusto e in nessun modo esaustivo del loro contributo alla liberazione umana.
Dunque cosa fare, in concreto, di fronte alle elezioni europee imminenti? Il primo passo ci pare che dovrebbe essere in direzione esattamente contraria a quello rappresentato dalla candidatura di Tsipras: si dovrebbe rifiutare la centralizzazione a livello comunitario del dibattito e chiamare gli italiani alla riflessione sulla loro condizione dentro l’integrazione europea come essa concretamente è, e non come potrebbe essere nel mondo delle favole. Evidentemente accettare la presidenzializzazione della campagna elettorale, per di più quando esprimere una candidatura alla presidenza della commissione non è obbligatorio, significa porsi in un’ottica del tutto opposta. Il secondo passo dovrebbe essere quello della costruzione di una lista esplicitamente comunista e anticapitalista, che chiami alla mobilitazione non solo elettorale, ma in primo luogo sociale, per la riconquista della sovranità popolare (possibile in questa fase solo nel quadro nazionale), usando la campagna elettorale e l’eventuale presenza istituzionale come una tribuna e presentando l’ingresso nel Parlamento europeo non come un fine, ma come uno strumento in più per la lotta contro l’Unione Europea e per la libertà dei popoli.
Significa tutto questo escludere la definizione di luoghi e momenti di analisi comune e di unità tra le forze comuniste e anticapitaliste dentro l’UE e a livello continentale? Evidentemente no, dato che l’esistenza stessa dell’Unione definisce un terreno di scontro e un complesso di problemi comuni da affrontare in modo coordinato. Significa però rimettere le cose nella giusta prospettiva, facendo procedere la lotta comune da un punto di partenza concreto, invece che da un’astrazione ideologica.
Sarebbe sufficiente tutto questo alla conquista di un successo elettorale? Evidentemente no. Le forze della trasformazione vincono elettoralmente solo quando sono capaci di direzione del conflitto sociale, il che richiede un lavoro di radicamento di lunga lena nei luoghi della contraddizione capitale-lavoro e nei movimenti di massa che il Prc non solo non ha fatto, ma agli esiti dell’ultimo congresso nemmeno si dispone a incominciare.
Coerentemente, la linea oggi assunta dal nostro Partito rispetto alle elezioni europee si colloca in una prospettiva opposta: quella della riaggregazione “a sinistra” dell’arcipelago organizzativo nato dalle sue mille scissioni su un terreno più arretrato di quello che le aveva tenute insieme – sostituendo cioè alla questione attualissima della rifondazione comunista il feticcio della sinistra – eludendo completamente un’analisi della fase di trasformismo che ha ricollocato parte di quelle organizzazioni, a rimorchio del Partito Democratico, sul versante della difesa di fatto di interessi di classe opposti a quelli dei lavoratori.
Questi i motivi del nostro radicale dissenso rispetto alla “lista Tsipras” e alla parola d’ordine della conquista di “un’altra Europa possibile”. Il resto – il protagonismo dei pennivendoli di regime di Repubblica e di Micromega, le ambiguità di SEL, la mendace prospettiva della “disobbedienza ai trattati senza liquidare l’Europa” e la ricerca di un dialogo oggettivamente impossibile con la socialdemocrazia nel contrasto all’austerità imposta dalla Trojka – non è che una conseguenza di una concezione della questione dell’Europa subalterna all’ideologia che regge l’ordinamento sociale ed economico che i comunisti hanno la missione storica di abolire.