Unione Europea: integrazione o rottura?

Unione EuropeaDi Ângelo Alves, “O Militante” (Rivista teorica del Partito Comunista Portoghese), Nº 328 – Gen/Feb 2014.
Traduzione per FP a cura di Francesco Delledonne.

Elezioni in tempo di crisi

Il 25 maggio 2014 si terranno le elezioni per il Parlamento Europeo. Per il PCP le elezioni per il Parlamento Europeo sono sempre state un’importante giornata di lotta in difesa degli interessi dei lavoratori e del popolo, dell’indipendenza e della sovranità nazionale e allo stesso tempo un contributo per la lotta contro il processo di integrazione capitalista e per un’altra Europa dei lavoratori e dei popoli. Così sarà ancora una volta.
Peraltro, queste elezioni avranno un’inquadratura particolare che farà di esse, sul piano nazionale e europeo, un importante momento di chiarificazione politica. Si tengono in un momento acuto dell’approfondirsi della crisi strutturale del capitalismo. Avranno una grande importanza per il proseguimento della lotta dei lavoratori e del popolo e per il rafforzamento dell’influenza politica del PCP – condizione determimante per la costruzione di una politica patriottica e di sinistra, che nel suo sviluppo si confronterà inevitabilmente con i vincoli derivanti dall’integrazione del Portogallo nell’Unione Europea.
Oltre alla questione dell’elezione di deputati al P.E. che difendano in quella istituzione l’interesse nazionale, dei lavoratori e del popolo, queste elezioni saranno un importante momento di lotta politica e ideologica riguardo all’alternativa politica sul piano nazionale e dei cammini alternativi per una vera cooperazione fra Stati sovrani e con uguali diritti. Per questo devono essere intese come una battaglia centrale del Partito in cui si deve impegnare tutta la sua organizzazione, nel quadro della CDU [Coalizione Democratica Unitaria, coalizione di sinistra con cui il PCP si presenta alle elezioni dal 1987, ndT.].

Una intensa lotta fra le classi, un profondo scontro ideologico

Le elezioni per il P.E. del 2009 si erano tenute in un quadro in cui la crisi del capitalismo cominciava a manifestarsi con maggiore violenza nel continente europeo. I mesi che le avevano precedute furono il tempo di discorsi su una crisi che “veniva da fuori”, rispetto alla quale l’UE, con la sua “solidarietà e coesione economica e sociale” e con l’Euro, avrebbe funzionato come uno “scudo”. Fu il tempo di discorsi sulla crisi “finanziaria” generata dagli “eccessi”, delle eloquenti elaborazioni riguardo al falso “distacco dal neoliberismo” e della “rifondazione del capitalismo”. Il tempo delle promesse sulla fine dei paradisi fiscali, della “mano dura” contro gli “irresponsabili”, della “necessità della regolamentazione dei mercati” e del “rafforzamento dell’UE” per “far fronte alla crisi”.
Ma non fu necessario molto tempo perché la realtà si incaricasse di dimostrare la falsità di queste campagne. Quello che risalta alla vista, e oggi viene riconosciuto, è che la crisi che stiamo vivendo nell’UE non è né “venuta da fuori”, né si tratta di una crisi finanziaria o di “debiti sovrani”. Essa viene “dall’interno” del sistema, si tratta di una crisi di sovrapproduzione e sovraccumulazione di capitale che mette in evitenza le contraddizioni e i limiti storici del capitalismo. Ed essendo una crisi di sistema, rapidamente si è manifestata in tutti i centri del capitalismo mondiale, in particolare negli spazi di integrazione capitalista com’è l’UE. È per questo che affermiamo, e la realtà lo conferma, che la crisi del capitalismo nell’UE è al tempo stesso una crisi dell’UE e delle sue fondamenta, che mette in evidenza con incredibile nitidezza la sua natura, le sue insanabili contraddizioni e limiti oggettivi.
E se le cause della crisi hanno evidenziato la vera natura dell’UE, la sua stessa evoluzione nel contesto della crisi ha intensificato il suo carattere sfruttatore, oppressivo, antidemocratico e di dominio imperialista. I celebri discorsi sulla “coesione e solidarietà” sono caduti definitivamente a terra. Se c’è stato uno scudo, è stato quello che le principali potenze dell’UE hanno usato per “difendersi” dalla crisi costruendo una specie di “cordone sanitario” a sua volta composto dai Paesi più dipendenti e indeboliti del “Sud” e materializzatosi in uno scenario di distruzione economica e sociale, come è stato ed è il caso del Portogallo.
Ma i popoli, specialmente quelli della malamente definita “periferia”, hanno iniziato a prendere coscienza di questo e i difensori del “progetto europeo” si trovano alle prese con una contestazione crescente dei cittadini verso le politiche dell’UE, l’Euro e la stessa UE. È questo quadro politico di intensa lotta fra le classi e di profondo scontro ideologico che caratterizza queste elezioni.

L’evoluzione dell’Unione Europea nel contesto della crisi. Cinque assi dell’offensiva di classe

Come affermò il PCP nel 2009: “La crisi viene usata per la concentrazione del potere economico e politico, per maggiori avanzamenti nella liberalizzazione dei mercati e per il consolidamente del direttorio delle grandi potenze. Queste cercano di dirimere le proprie contraddizioni e riposizionarsi dinanzi a un processo di riassettamento del sistema economico e finanziario internazionale, in una visione concorrenziale fra le potenze con l’obiettivo di una maggiore affermazione dell’UE come blocco economico, politico e militare di natura imperialista, con ambizioni di interventismo globale”.
Si conclude quindi che “alla profonda crisi sistemica e strutturale del capitalismo, l’UE risponde con una strategia di ‘fuga in avanti’ e con l’approfondirsi della [sua] natura neoliberale, federalista e militarista.”
La realtà sta dando una volta di più ragione al PCP, così come sta dando ragione alle posizioni di sempre del Partito relativamente alla CEE/UE, ai successivi trattati e all’Euro. E se sbagliammo sul livello fu per difetto, una volta che il processo più sopra descritto è andato ancora più a fondo e si è rivelato tremendamente violento. L’evoluzione dell’UE si è caratterizzata in questi cinque anni in una offensiva violenta fondata su cinque assi fondamentali:
1) Una distruzione molto significativa delle forze produttive, con conseguenze brutali nelle economie più dipendenti, come quella portoghese o quella greca, con la distruzione di decine e decine di migliaia di micro, piccole e medie imprese, di sistemi produttivi, con la demolizione di settori strategici in alcuni Paesi, con l’aumento esponenziale della disoccupazione e con l’indebitamento galoppante in vari Stati, privati degli strumenti di decisione necessari al proprio sviluppo economico e sociale.
2) Un processo di enorme concentrazione e centralizzazione del capitale per mezzo di un salto qualitativo di grande dimensione nel processo di trasformazione del debito privato in debito pubblico; “di un’intensificazione dei processi di privatizzazione, fusione e acquisizione di imprese; di concentrazione, di accordo con gli interessi delle mega-banche; di allargamento del mercato comune a settori come i trasporti, l’energia, la posta, la sicurezza sociale, fra gli altri, con la conseguente consegna ai monopoli, per mezzo della privatizzazione o dei cosiddetti ‘partenariati pubblico-privato’, di questi settori ad elevata redditività. È questo processo, che ha iniziato a svilupparsi già da molti anni ma che in questi quasi cinque anni ha conosciuto dimensioni inaudite, che è all’origine, alla pari dell’estorsione finanziaria, delle cosiddette ‘crisi dei debiti sovrani’.”
3) Un programma antisociale, politico e ideologico di regressione civile, legato al processo di concentrazione e centralizzazione del capitale sopra descritto, con l’obiettivo centrale di contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto, aumentando esponenzialmente il livello di sfruttamento dei lavoratori e di altri strati antimonopolisti. Si inquadrano in questo terzo asse i “memorandum di intesa”; la forte riduzione dei redditi del lavoro (tagli ai salari e aumento dell’orario di lavoro); restringimento e persino eliminazione dei diritti lavorativi, specificatamente per via della deregolamentazione e della guerra totale alla contrattazione collettiva; le “riforme fiscali” e la “armonizzazione fiscale” nello spazio dell’UE, che aumentano violentemente il carico fiscale sul lavoro e sul consumo delle masse, diminuendo quello sul capitale; la restrizione dei diritti sociali, riduzione o eliminazione dei benefici sociali (come l’indennità di disoccupazione, sussidi per la famiglia, redditi minimi garantiti, eccetera); il taglio delle pensioni e l’aumento dell’età di pensionamento, e per finire la riconfigurazione degli Stati (le cosiddette “riforme strutturali”) con l’eliminazione delle loro funzioni sociali, specialmente nelle aree dell’educazione, della salute e della sicurezza sociale, cosnegnando questi settori al capitale privato.
4) Un processo di centralizzazione e concentrazione di potere politico, disegnato alla luce delle necessità del grande capitale e dei suoi monopoli e concepito per istituzionalizzare e forzare la regressione sociale e la concentrazione di capitale, portato a termine con la partecipazione attiva delle classi dominanti in ogni Stato dell’UE e che configura un attacco criminoso alla sovranità nazionale e alla stessa democrazia borghese.
Continuando ad utilizzare gli Stati nella logica del capitalismo monopolista dello Stato adattato alle condizioni attuali (come è evidente in Portogallo), il grande capitale cerca di rispondere a varie tendenze inerenti allo stesso sviluppo del capitalismo in Europa (in particolare lo sviluppo diseguale e la caduta tendenziale del saggio di profitto) e del suo processo di integrazione nel continente.
Si avanza così verso nuove forme di dominio attraverso la concentrazione di potere politico in centri di decisione direttamente controllati dal grande capitale e “al riparo” dal voto e dal controllo popolare. Questo processo di concentrazione e centralizzazione del potere non è nuovo, esso configura un’architettura di potere che il grande capitale già da tempo ha in programma per l’Europa e che da molti anni si sta sviluppando gradualmente, in cui ogni passo giustifica quello successivo.
Un’architettura e una logica che, non rinunciando al controllo del capitale sul potere politico, concepisce l’UE in una logica che potremmo chiamare di “capitalismo monopolista multi-statale”. Una specie di super-Stato, costruito sulla base di Stati formalmente indipendenti ma spogliati dei propri strumenti di sovranità, caratterizzato da una sempre maggiore fusione del potere economico con il potere politico, il cui funzionamento si basa sul concetto di direttorio delle potenze (nonostante venga presentato formalmente come federalista), attraversato da contraddizioni interne fra le potenze e caratterizzato sempre di più da relazioni di dominio simil-coloniale che hanno l’obiettivo di mettere in discussione diritti conquistati dai popoli e a volte sanciti nelle leggi fondamentali, com’è nel caso della Costituzione della Repubblica Portoghese.
5) L’affermazione e il rafforzamento dell’UE come blocco politico-militare imperialista, la cui politica cosiddetta “estera” risponde agli obiettivi di dominio economico del grande capitale europeo e delle principali potenze imperialiste del continente (come la Francia e la Germania) creando migliori condizioni di competizione da pari a pari con altre potenze imperialiste mondiali (come gli USA) nel pocesso di dominio imperialista sui mercati, sulle risorse e sulle rotte commerciali. È particolarmente significativo il fatto che siano le stesse istituzioni dell’UE a riconoscere che, anche in un periodo di intensa crisi, è stata la cosiddetta PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune) e in particolare la sua PSDC (Politica di Sicurezza e di Difesa Comune) uno dei pilastri con il più rapido sviluppo in seguito all’approvazione del Trattato di Lisbona nel 2009.
La realtà mostra un’UE sempre più interventista, impegnata in quasi tutti gli scenari di ingerenza, destabilizzazione e intervento militare (il caso della Libia è stato uno dei più evidenti), particolarmente nel continente africano e nella regione del Medio Oriente. Un’UE concentrata nella liberalizzazione del commercio mondiale e della circolazione di capitale e nell’imposizione di associazione e di libero commercio (come dimostra bene il caso dell’Ucraina) che, oltre al dominio economico e alla colonizzazione ideologica, vuole assorbire Paesi sovrani alla sua logica di blocco militarista e interventista.

Strumenti, evoluzione e conseguenze

La concretizzazione dell’offensiva in questi cinque assi è stata portata avanti facendo uso di strumenti già esistenti e plasmati nei successivi trattati, con particolare rilievo per Maastricht, Nizza e Lisbona. Sul piano economico e antisociale: con il Mercato Comune, il Patto di Stabilità e Crescita (Euro), la Strategia di Lisbona e le basi per una “governance economica”, fra gli altri. Sul piano politico: con il Trattato di Lisbona, che è entrato in vigore nel gennaio del 2009, e tutto il suo edificio istituzionale di centralizzazione del potere nel direttorio delle potenze. Sul piano dell’affermazione dell’UE come potenza imperialista: con la PESC e la sua componente più sviluppata, la PSDC, uno dei più grandi “avanzamenti” portati dal Trattato di Lisbona, in particolare con la creazione della carica di “Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza”, del “Servizio europeo per l’azione esterna”, dell’Agenzia europea per la difesa e con la centralizzazione della cosiddetta “politica di sicurezza” nel direttorio delle potenze alla luce del Concetto Strategico della NATO, come le recenti conclusione del Consiglio d’Europa del dicembre 2013 hanno comprovato, riaffermato e portato avanti.
Ma la magnitudine della crisi ha dimostrato che nemmeno l’enorme salto neoliberale, militarista e federalista che ha significato il Trattato di Lisbona è stato sufficiente per “gestire la crisi” e per portare a termine i cinque assi dell’offensiva mantenendo al tempo stesso intattta la sovrastruttura del capitalismo europeo e in particolare i suoi “vincoli” più importanti e al tempo stesso più deboli, l’Unione Economica e Monetaria, l’Euro.
Si sta quindi verificando un’autentica corsa istituzionale alla definizione di nuovi meccanismi connessi di imposizione e di dominio, e alla centralizzazione del potere, che hanno gettato a terra ogni possibile riferimento alla “solidarietà”, “cooperazione” o “coesione”. Una corsa che ha messo insieme misure di “emergenza” – come i “memorandum di intesa”, il “Fondo Europeo di Stabilizzazione Finanziaria” o gli interventi della BCE per salvare le banche private – con misure di carattere più permanente che vanno oltre il Trattato di Lisbona, o che persino lo contraddicono – come nel caso del Trattato sul Pareggio di Bilancio imposto dalla Germania – e che ora ha collocato nell’agenda UE la questione della revisione dei trattati.

Destra e social-democrazia, “la stessa lotta”

In coerenza con la storia dell’integrazione capitalistica in Europa, in cui lo sviluppo di uno dei suoi pilastri giustifica sempre lo sviluppo degli altri, l’agenda dell’UE è ora incentrata sugli avanzamenti nel militarismo, di cui abbiamo già parlato, e su una campagna ideologica – di cui le elezioni per il P.E. sono un elemento – sull’idea di “Più Unione Europea” e di “una vera Unione Politica”. In altre parole, l’approfondirsi del pilastro del neoliberismo è accompagnato, e serve da giustificazione, per l’approfondirsi dei pilastri del militarismo e del federalismo.
Questo processo non è esente da contraddizioni, dal momento che l’approfondimento della crisi strutturale approfondisce le contraddizioni e la competizioni fra differenti settori del grande capitale e fra le potenze dell’UE. In più le crescenti contraddizioni pongono in pericolo i suoi strumenti (l’Euro e la stessa UE). Così e dopo autentici “arrufos” fra la destra e la socialdemocrazia – di cui la campagna ideologica intorno all’elezione di Hollande è stato un punto elevato -, le due “famiglie politiche” responsabili del cammino fin qui percorso concordano sull’obiettivo che potremmo chiamare “federalismo neo-coloniale travestito da democrazia.”
In altre parole, come dimostra l’accordo fra SPD e CDU in Germania (smascherando una volta per tutte l’immagine di Shulz, il popolare presidente del Parlamento Europeo, come un “uomo progressista”), si cerca di “rendere naturale” e istituzionalizzare l'”aggiustamento”, la concentrazione e la centralizzazione di capitale e potere e rendere eterna la regressione sociale. L’obiettivo è andare più avanti possibile con l’istituzione di un comando dittatoriale neoliberale di autentica concezione coloniale che ad esempio applica dure sanzioni a “chi non fa i compiti” e premia i “bravi alunni”.
Ma c’è un problema, è necessario dare un’aria “democratica” e anche “solidale” alla “cosa”. Per fare ciò fanno ricorso all’idea ipocrita e falsa che “una maggiore integrazione economica” (in cui la questione della mutualizzazione del debito, degli Eurobond e del ruolo della BCE servono da esca preparata per la socialdemocrazia e per una cosiddetta “sinistra”, europeista e “libera”) dev’essere accompagnata da “un maggior controllo democratico sui processi decisionali”. Come in altri momenti, il P.E. sarà la carota e l’arena della propaganda e dell’ipocrisia. Utilizzando i vari strumenti politici e ideologici creati – in particolare “i partiti politici europei” – l’UE lancia [questa] idea e campagna: il P.E. avrà poteri rafforzati per supervisionare l’approfondirsi dell’Unione Economica e Monetaria e che… anche il Presidente della Commissione Europea verrà “eletto” con queste elezioni.
Tutte menzogne! Come questo mandato ha già dimostrato, le restrizioni al funzionamento democratico del P.E. sono sempre maggiori e il potere viene sempre di più concentrato o nelle [mani delle] principali potenze o nella “santa alleanza” della social-democrazia con la destra. Formalmente il P.E. potrà avere più potere, ma questi poteri sono concepiti solamente per approvare le decisioni del direttorio. Allo stesso tempo i Paesi più piccoli perderanno rappresentanza, come nel caso del Portogallo che già in queste elezioni perde un deputato. Nel frattempo, persino con il beneplacito del Partito della Sinistra Europea, assisteremo allo spettacolo del “dibattito” fra “i candidati a Presidente della Commissione”, mascherando il fatto che questa carica continua ad avvenire per nomina del Consiglio, che il Parlamento si limiterà a ratificare questa nomina e, cosa più importante, che il prossimo Presidente della Commissione è stato probabilmente già deciso durante l’accordo fra SPD e CDU in Germania.

Un’altra Europa, dei lavoratori e dei popoli è possibile

Le classi dominanti hanno deciso di schiacciare l’acceleratore e di forzare ad ogni costo un salto nella costruzione del proprio super-Stato imperialista.  Si capisce il motivo, dal momento che solo con un’ancora più violenta concentrazione del potere economico e politico potranno mantenere il proprio edificio di dominio, sfruttamento e oppressione che hanno costruito nel corso di decenni. Quelli che pensavano che avrebbe potuto avere un’altra forma, che l’UE fosse riformabile, che fosse possibile avere un’UE democratica e progressista, si sono illusi o sono finiti nell’illusionismo o equilibrismo politico. Ma il circo è finito. Sono le classi dominanti le prime a dire che è “o così o niente”. Il dibattito sul futuro dell’Europa è precipitato per l’evoluzione stessa della realtà. I popoli hanno due cammini fra cui scegliere:
– Quello dell’approfondimento del processo di integrazione capitalista in Europa, con i suoi 27 milioni di disoccupati (fra i quali sei milioni di giovani con meno di 25 anni) e i suoi 125 milioni di cittadini a richio di povertà. “L’UE della recessione economica, della deindustrustializzazione, della fine dei sistemi pubblici di sanità, istruzione e sicurezza sociale. L’UE delle asimmetrie di sviluppo, della colonizzazione economica, delle trojke, di Merkel, Barroso e Hollande, della guerra e dell’ingerenza. L’UE dei nazionalismi, del risorgimento del fascismo, della xenofobia e del razzismo;”
– Oppure quello della rottura con il processo di integrazione capitalista. Una rottura che rifiuti soluzioni isolazioniste, che vive di solidarietà. Una rottura che all’imposizione risponde con sovranità, democrazia e cooperazione; che al dominio economico risponde con lo sviluppo e la solidarietà; che ai criteri contabili risponde con criteri sociali; che alla guerra risponde con relazioni reciprocamente vantaggiose; che agli attacchi alla sovranità risponde con la valorizzazione delle differenze come la maggiore ricchezza
di questo continente. Una rottura che è il primo passo per la costruzione di una altro quadro di cooperazione in Europa. Una cooperazione “inter-nazionale” che, come i processi nei nostri Paesi dimostrano, non è neutra dal punto di vista di classe. Può essere direzionata in funzione degli interessi di una minoranza – come il caso dell’UE – o in funzione degli interessi della maggioranza – come nel caso di alcuni processi in America Latina.
Quale delle due avverrà, ancora una volta e come sempre, sarà la lotta di classe, specialmente nel piano nazionale, a determinarlo, a determinare il corso della Storia. E la realtà è, come si è cercato di dimostrare in questo articolo, dalla nostra parte.

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