di Alessio Arena
In una sua celebre composizione, il cantautore rivoluzionario Alí Primera descrive l’immaginario colloquio tra un bambino venezuelano suo contemporaneo e lo spirito del Libertador Simón Bolívar. Erano gli anni della Quarta Repubblica e doveva ancora trascorrere molto tempo perché Chávez giungesse a guidare il suo popolo alla conquista di una Patria di cui esso potesse sentirsi pienamente orgoglioso e partecipe. Un passaggio in particolare della canzone di Primera ci pare abbia a che vedere con il 25 Aprile, coi settant’anni della nostra Liberazione tradita, della rottura negata della Storia d’Italia ricondotta alla fatalità divina dell’ingiustizia dalla Guerra Fredda voluta e infine vinta dall’imperialismo atlantico. In quel passaggio del suo testo, il poeta bolivariano fa dire al bambino che parla con il Libertador: «Il popolo, illudendosi, crede che l’alta borghesia vada a portarti i fiori al Pantheon Nazionale ad ogni anniversario della tua morte». Bolívar risponde: «E allora perché ci vanno, piccolo compatriota?», e il bambino: «Per assicurarsi che tu sia ben morto, Libertador, ben morto».
Prestando attenzione alle parole delle “alte cariche dello Stato” in occasione della ricorrenza della nostra Liberazione, sentiremo l’eco di questo stesso concetto: l’omaggio ai partigiani, la commemorazione senza sostanza dei fatti passati serve, deve servire ai gruppi dominanti della società, ai loro apparati di violenza, ai loro ideologi e ai loro apologeti per assicurarsi che lo spirito del 25 Aprile non torni ad aleggiare sul nostro paese. Un esorcismo fatto di discorsi di circostanza e corone di fiori, per fiaccare e tener lontano lo spettro che più li spaventa.
Il 25 Aprile è stato, per i predecessori di lorsignori, la prima sconfitta epocale. Esso ha rappresentato la frattura tra la loro Italia dell’ingiustizia sociale, della falsa unità del 1861 trasformatasi in oppressione e sottosviluppo per le regioni meridionali e competizione sfrenata tra le loro masse di disoccupati e i lavoratori del nord a beneficio del profitto dei soliti pochi, della mafia integrata nel seno stesso del blocco di potere su cui si reggeva – e tuttora si regge – lo Stato, e la nostra Italia ancora tutta da costruire, resa possibile dall’antifascismo vittorioso e soltanto delineata dalla Costituzione repubblicana, per questo oggetto dell’attacco forsennato da parte del governo presieduto da Matteo Renzi. Sui passi dei partigiani che in quella primavera lontana liberarono le nostre città dalla barbarie nazista e fascista figlia dell’imperialismo e della sua necessità di controllare e inquadrare con la violenza fisica e ideologica una società pericolosamente vicina alla rivolta, marciava la nuova Storia del mondo cominciata con la presa del Palazzo d’Inverno del 7 novembre 1917. Non a caso di lì a pochi giorni, l’8 maggio del ’45,mentre ovunque si festeggiava la fine della guerra mondiale, i francesi si sarebbero incaricati per conto dell’Occidente di aprire il dopoguerra con gli orrendi massacri colonialisti contro il popolo algerino perpetrati a Sétif, Guelma e Kherrata: con l’antifascismo vittorioso esplodeva su scala planetaria la questione dell’eguaglianza sostanziale tra gli esseri umani, del loro diritto a essere padroni del proprio destino, nelle colonie come tra le classi oppresse dei paesi colonizzatori. La Guerra Fredda, voluta dall’amministrazione Truman e dai suoi alleati in quella che di lì a pochi anni sarebbe diventata la NATO, fu la risposta consapevole, scientifica, pianificata del capitalismo internazionale all’aria di libertà che nell’esperienza concreta del popolo italiano fu portata dal 25 Aprile.
La cosiddetta “Prima Repubblica”, nata nel 1947 con la rottura dell’unità antifascista ordinata da Truman e condotta a termine da De Gasperi con la cacciata di comunisti e socialisti dal governo, è stata il terreno dello scontro tra coloro che a quel cambiamento profondo e liberatore volevano sbarrare la strada, in Italia e ovunque, e coloro che, nel solco della lotta partigiana, ne volevano approfondire gli effetti fino alla costruzione di una società libera dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Durante le celebrazioni del Settantesimo della Liberazione, le “alte cariche dello Stato”, gli artefici e i responsabili del regresso materiale, morale e culturale che il nostro paese vive da decenni e cui la crisi economica non ha fatto che da moltiplicatore, vorranno convincerci che l’Italia di oggi sia il frutto del 25 Aprile. Mentono. Strada per strada, piazza per piazza a noi spetta il compito di contraddirli, di sbugiardarli, di denunciarli: l’Italia e il mondo di oggi sono figli della vittoria dell’oscurantismo contro la ragione, dell’arbitrio contro la giustizia, della sopraffazione contro l’eguaglianza, che è stata l’esito finale della Guerra Fredda. Con la caduta del muro di Berlino e la scomparsa del campo socialista, il vento della Liberazione è calato in molta parte del mondo, e a tutti i livelli oggi ne misuriamo le conseguenze. In Italia, è stato il periodo di transizione conosciuto come “Seconda Repubblica” a tradurre in involuzione politica e sociale la sconfitta subita dagli ideali della democrazia e del progresso nell’autunno del 1989.
Il nostro 25 Aprile deve dunque essere il giorno della rinnovata consapevolezza della realtà in cui viviamo. Solo pochi giorni fa, circa ottocento migranti sono affogati nel Canale di Sicilia, seguiti a distanza di alcune ore da altri duecento. Ecco la manifestazione concreta di ciò cui ha portato la negazione del contenuto del 25 Aprile. In quell’ecatombe sono riassunti tutti i caratteri del mondo contemporaneo e tutte le colpe dell’Italia di oggi, costruita sul tradimento dei valori e degli ideali della lotta partigiana.
Il nostro paese è promotore e attore delle più spudorate e sanguinose aggressioni militari, sempre servilmente al seguito dei padroni a stelle e strisce. Dal suo territorio, punteggiato di basi di guerra straniere, sono partiti i bombardieri – anche italiani – che hanno raso al suolo la Libia nel 2011, spalancando le porte all’integralismo islamico e creando le condizioni per una delle più drammatiche fasi di esodo di massa che la storia ricordi. Come in Libia la guerra, fomentata dall’Occidente e dai suoi tirapiedi mediorientali, è divampata ovunque: dalla Siria alla Costa d’Avorio, dal Mali all’Ucraina del nazi-fascismo rinascente sotto i buoni auspici di USA e Unione Europea. L’Italia è parte attiva di questo processo di estensione senza freni della guerra sulla superficie della terra, tanto da fare ormai suonare come una macabra irrisione ai danni dei popoli che ne sono vittime l’Articolo 11 della sua Costituzione antifascista.
La conseguente parola d’ordine della rottura con la NATO e della chiusura sul nostro territorio di basi militari straniere in cui sono stoccate anche armi nucleari, e cioè la rivendicazione di mettere fine a uno dei più stridenti e lugubri retaggi della Guerra Fredda, acquisisce così un contenuto tanto sul versante della lotta per la pace e la cooperazione tra i popoli, quanto su quello della costruzione della giustizia sociale dentro la nostra società nazionale.
Se è vero infatti che la guerra che l’Italia contribuisce a diffondere, e con essa i mille risvolti dello sfruttamento neocoloniale del Terzo Mondo cui i nostri gruppi finanziari e industriali partecipano con la crudeltà e il cinismo propri di tutti i predoni, producono enormi flussi migratori, è altrettanto vero che i rapporti di lavoro salariato legale e illegale che il padronato italiano stabilisce all’interno con i componenti di questo sterminato esercito di riserva vanno facendosi sempre più propedeutici e paradigmatici rispetto all’evoluzione delle relazioni sociali che, contro l’eredità della Resistenza incarnata dalla nostra Costituzione e in conformità con i vincoli imposti da un’Unione Europea che rappresenta l’antitesi perfetta e non riformabile della libertà dei popoli, si stanno imponendo attraverso misure di aggressione contro le classi lavoratrici quali il Jobs Act di Renzi. Competizione tra lavoratori condotta alle estreme conseguenze, abbattimento del costo della mano d’opera e conseguente, drastico peggioramento delle condizioni di vita di tutti a vantaggio della concentrazione della ricchezza in poche mani sono il modo in cui i meccanismi di dominazione che s’impongono su scala mondiale si traducono in spietata guerra di classe sui nostri luoghi di lavoro e nei nostri quartieri. Con l’imminente apertura di Expo2015, con la sua precarietà portata all’estremo, le migliaia di stage non pagati, i giri speculativi e le infiltrazioni malavitose che stanno caratterizzando l’intero iter della manifestazione, l’Italia del 25 Aprile liquidato nei fatti e ridotto a mera celebrazione si prepara a mostrarsi al mondo come allieva diligente del processo di normalizzazione capitalista che lo sta trascinando alla barbarie.
Per tutte queste ragioni, il nostro deve essere un 25 Aprile d’impegno moltiplicato, di consapevolezza fatta più acuta per servire da arma di trasformazione: consapevolezza del contenuto e dell’attualità di una Storia che non sarà finita fino a quando la parola “Liberazione” non saprà descrivere le relazioni umane in ogni loro risvolto, ma anche consapevolezza personale e collettiva dei compiti che da ciò derivano e della necessità di lavorare su noi stessi per esserne all’altezza.
Dalla memoria dei nostri partigiani abbiamo da apprendere l’umiltà, la dedizione e la disciplina che qualunque lotta di Liberazione richiede, tanto in situazione di guerra quanto nel quadro più incerto e nebuloso della resistenza contro lo sfumare della morale e della consapevolezza collettiva verso quell’individualismo distruttore della socialità umana che è l’espressione più compiuta della putrefazione della Storia cui l’attuale stato di cose conduce. Alla banalità dei “tweet” e del pensiero appena abbozzato, all’inibizione dell’attenzione come esercizio quotidiano che introduce alla comprensione, e dunque alla coscienza sociale e individuale, tocca a noi opporre la rivendicazione orgogliosa della capacità dell’azione conoscitiva umana di comprendere, descrivere e dominare la ragione che esiste nel flusso della Storia e che risiede nella battaglia contro il bisogno materiale e contro le limitazioni auto-inflitte della diseguaglianza elevata a sistema che qualcuno vorrebbe convincerci essere la “fine della Storia”.
I rivoluzionari, gli eredi dello spirito della Resistenza, saranno nelle piazze d’Italia a celebrare tutto questo, a riaffermarlo come essenza di una giornata imperitura: il 25 Aprile che si rinnova ogni giorno nella ricerca delle forme, dei modi, del cammino per fare del nostro paese un’avanguardia nella conquista, per tutti i popoli della terra, di un avvenire pienamente e definitivamente Umano.