Dopo i fatti di Milano, che fare?

di Fulvio Lipari

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Da un lato l’Expo, un evento miliardario capace in un sol colpo di devastare migliaia di ettari di territorio, rendere ancora più palese il collegamento strettissimo tra imprenditoria nostrana, politica e mafia, assumere sfacciatamente come sponsor di una kermesse dedicata a “nutrire il pianeta” le peggiori multinazionali alimentari e, dato centrale, fungere da laboratorio nazionale sulle nuove forme di sfruttamento lavorativo sottopagato o volontario.

Dall’altra parte un corteo di trentamila persone, un corteo di respiro europeo come se ne sono visti pochissimi negli ultimi decenni nel capoluogo lombardo. In potenziale una occasione strepitosa per ricominciare a tessere un legame con una città narcolettica, incapace di tornare a costruire conflitto.

Una occasione, è il caso di dirlo, letteralmente andata in fumo.

Dinanzi ad un evento di tale portata la prima cosa da fare è evitare di crogiolarsi nell’autoassolutoria retorica della distinzione tra corteo dei buoni e corteo dei cattivi. Una tale dicotomia è utile solo a scrollarsi di dosso ogni responsabilità, appellandosi a quel “io non c’entro” che non può portare ad altro che non sia immobilismo, incapacità di cambiare le dinamiche evidentemente rovinose della piazza di venerdì e quindi vederle nuovamente in azione alla prossima occasione.

La causa di ciò che è successo è collettiva, da ripartirsi, seppur evidentemente non in parti uguali, tra tutte le realtà e i singoli militanti che in questi anni sono non stati incapaci di fermare l’incedere delle pratiche spontaneistiche, l’idea che ognuno possa e debba scendere in piazza come gli pare, senza capire che pratiche diverse e opposte lasceranno inevitabilmente segni opposti e qualitativamente differenti nell’immaginario di quelle masse annichilite, ma che si avrebbe il dovere di svegliare. Inoltre la sempre più diffusa avversità all’idea che per fare politica siano necessarie strutture e organizzazioni e quindi disciplina anche e soprattutto là dove si sviluppa il conflitto, non fa che estremizzare dinamiche di piazza sempre più anarco-individualistiche.

Se è vero che oggi, in Italia, viviamo un sentimento sempre maggiore di solitudine e di disgregazione della coscienza di appartenenza ad una classe sociale, dovremmo porci come problema centrale del nostro agire politico il ribaltare questo processo disgregativo, innescandone uno che permetta a noi classe sfruttata di riconoscerci reciprocamente come tale, di ricomporci e di lottare nuovamente fianco a fianco, insieme e compatti (il solito, annoso problema di ricomporre la classe in sé facendola divenire classe per sé).

Per innescare tale processo però, è evidente che si debba gettare un ponte tra chi già milita e ha coscienza e le masse sfruttate eppure inconsapevoli del proprio status, succubi della propaganda mediatica, oggi inermi e sempre più reazionarie. Un tentativo che per riuscire vincente deve tenere conto della fase oggettiva nella quale ci si trova ad agire, fase di riflusso delle lotte e di conservazione. Non farlo è esattamente il peccato originale che sta portando il movimento ad autoannullarsi e ad inimicarsi proprio coloro ai quali teoricamente ci si vorrebbe rivolgere.

Molti osservano che il lungo ’68 italiano fu costellato di avvenimenti tempestosi e violenti, incalzati e sostenuti da una classe operaia che in molte occasioni si è trovata a scavalcare a sinistra il PCI. Risulta evidente però che tale osservazione, senza la considerazione di quanto il movimento studentesco e operaio italiano e internazionale fosse in espansione e cosciente di sé, serve solo a generare un pericoloso abbaglio.

Oggi la fase è diametralmente opposta, non calibrare il proprio intervento nella società partendo da questo dato non è fare politica, è giocare al riot, che è ben altra cosa!

Deve essere chiaro che non accettiamo lezioni dai servi di un sistema sociale fondato sulla violenza, sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla miseria della maggioranza della popolazione mondiale, fondato sulla guerra e sul terrorismo di Stato.

Non accettiamo lezioni da chi si ingrassa quotidianamente con appalti e mazzette, da chi devasta il territorio e si arricchisce ai danni della maggioranza della popolazione.

Non accettiamo lezioni da una giunta comunale che nulla ha fatto – al di là delle parole – perché Expo non diventasse una manna per la mafia e una vetrina per le peggiori multinazionali.

E non accettiamo lezioni dalle forze repressive dello Stato che proteggono tutto questo e tanto meno dai media ammaestrati utili a creare un consenso di plastica.

Se però vogliamo tornare a camminare uniti e vogliamo cercare sponde per riallacciare una interazione positiva con le masse inerti al fine di spronarle all’azione, dobbiamo ripensare collettivamente a noi in qualità di movimento, alle nostre pratiche, rimettendo al centro scelte e dinamiche collettive, avendo il coraggio di allontanare l’individualismo e lo spontaneismo, comprendendo la necessità di dotarsi di un programma all’altezza, di organizzarsi, strutturarsi e di darsi degli strumenti per difendere la piazza sia dagli apparati repressivi dello Stato che da quelle frange incapaci di partecipare a percorsi condivisi ma capacissime di fare il gioco della borghesia e dei media, dando loro man forte nel distogliere l’attenzione dalle speculazioni e dalla svendita del nostro futuro.

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