di Francesco Delledonne
«Fu composto l’otto settembre del quarantasette, all’occasione di un primo moto di Genova per le riforme e la guardia civica; e fu ben presto l’inno d’Italia, l’inno dell’unione e dell’indipendenza, che risonò per tutte le terre e in tutti i campi di battaglia della penisola nel 1848 e 1849.» G.Carducci
“Il Canto degli Italiani” – il titolo originale di “Fratelli d’Italia” – è visto da anni nella sinistra italiana con sospetto – quando non con aperta avversione -, in quanto interpretato come sintomo di nazionalismo o comunque di simpatie reazionarie.
Come risultato, uno dei principali simboli dell’Italia e del Risorgimento – e con esso, più in generale, il sentimento patriottico – viene di fatto, in un colossale autogol politico, “regalato” simbolicamente all’estrema destra, che se ne è non a caso appropriata – pur avendo essa tradito sistematicamente, in tutti i momenti chiave della storia italiana (dalla sottomissione alla Germania nazista fino al ruolo di manovalanza della Nato dagli anni ’60 a oggi), gli interessi nazionali -, oppure confinato al ruolo di motivatore della nazionale di calcio.
Un inno che nasce invece con forti connotazioni progressiste, anti-monarchiche e giacobine, che prende piede fra il popolo italiano nonostante la contrarietà dei Savoia e che si impone nei fatti come inno della riscossa nazionale letteralmente sulle barricate di Milano, Venezia e Roma.
Scopo di questo breve testo è quello di gettare un primo sassolino perché questa tendenza inizi a invertirsi e perché i rivoluzionari italiani inizino a riprendersi la propria Storia.
« Il poeta con la sciabola in mano »
Goffredo Mameli come personaggio storico, al di là della paternità dell’Inno, è praticamente dimenticato nell’Italia attuale, nonostante abbia tutte le caratteristiche per essere – come in effetti è stato – uno dei simboli migliori del Risorgimento.
Nato e cresciuto a Genova, vive una vita brevissima ma piena di intensità e energia: innamorato delle idee mazziniane, viene coinvolto sin da giovanissimo nel fermento patriottico di quegli anni.
A una ragazza di buona famiglia, di cui Goffredo era innamorato e che forse voleva sposare, fu dipinto come il diavolo da un confessore gesuita, che le intimò di rompere ogni rapporto con quel “liberale scomunicato”.
Scrive poesie – in cui sono evidenti i suoi sentimenti progressisti e democratici – e l’Inno che lo consegnerà alla Storia, ma allo stesso tempo, vero e proprio “poeta-combattente”, non si tira indietro quando dalle parole è ora di passare ai fatti.
Partecipa alla spedizione di 300 volontari in soccorso dei rivoltosi milanesi nel 1848; lì conosce Garibaldi e si arruola nel suo esercito col grado di capitano; lo ritroviamo sul Mincio, a Roma, Firenze, di nuovo a Genova.
Le sue lettere ci danno prova dell’attività febbrile di quei giorni: “Quando assassinano il nostro paese noi non abbiamo altro letto che quello della morte; ma prima bisogna battersi, battersi, battersi”; “Sono stanchissimo per una marcia di diciotto ore”; “Questo si chiama far la guerra senza dormire”.
Trova la morte infine, a 22 anni non ancora compiuti, per una ferita riportata durante la difesa della Repubblica romana assediata, sul Gianicolo.
Proprio il giorno in cui – dopo una breve agonia – morì, il 6 luglio 1849, il ministro dell’Interno sabaudo, marchese Pier Dionigi Pinelli, emetteva un decreto in cui si vietava l’ingresso al Regno di Sardegna ai volontari della Repubblica Romana “e in particolare a: Mazzini, Garibaldi, Bixio e Mameli”.
L’inno delle barricate
Scritto alla fine del ’47 e messo in musica dal maestro Michele Novaro – che più tardi organizzò innumerevoli concerti ed eventi per raccogliere fondi per le campagne garibaldine -, già il 10 dicembre 1847 venne cantato da 30.000 patrioti riuniti a Genova, in occasione dell’anniversario della cacciata degli austriaci dalla città e in seguito al ritiro della norma poliziesca che vietava assembramenti di più di dieci persone.
Una critica che viene spesso fatta è quella di essere musicalmente niente più che una marcetta e comunque di scarso valore artistico rispetto a inni di altri paesi. Su questo ci sono opinioni divergenti, in particolare sulla fedeltà dell’interpretazione attuale rispetto alle indicazioni tecniche di Novaro; ma ad ogni modo, come sottolinea lo storico Michele D’Andrea, “dinnanzi a un inno nazionale non bisogna mai applicare i normali criteri con i quali si giudica un’opera d’arte. Perché un inno nazionale deve avere una sola funzione: aggregare una collettività intorno a un’idea”.
E questa funzione l’inno di Mameli se la conquista immediatamente sul campo, con una rapidità di diffusione sorprendente viste le tecnologie dell’epoca. Lo si trova intonato come canto di battaglia sulle barricate di Milano durante le Cinque Giornate, su quelle di Venezia e nelle strade della Repubblica Romana assediata dagli eserciti stranieri chiamati in soccorso dal Papa Pio IX, lo stesso papa beatificato nel 2000 a Roma mentre il 150° anniversario della morte di Mameli, un anno prima, passava volutamente nel dimenticatoio; lo ritroviamo cantato dalle camicie rosse insieme all’Inno di Garibaldi durante la spedizione dei Mille.
Durante il fascismo – anche se non vietato – venne sempre visto con sospetto, soppiantato da Giovinezza e dalla Marcia Reale, inno ufficiale di quegli anni, il cui contenuto politico non poteva essere più lontano: Viva il Re! Viva il Re! Viva il Re! / Chinate o reggimenti le bandiere al nostro re / (…) Bei figli d’Italia gridate evviva il Re!, e poi ripreso propagandisticamente durante la Repubblica di Salò.
Lo ritroviamo cantantato da reparti partigiani insieme a Bella Ciao, Fischia il Vento e Bandiera Rossa e nel 1946 – dopo il referendum che vede vittoriosa la Repubblica – diviene “inno provvisorio”, status che mantiene tuttora.
Il testo
Fratelli d’Italia
L’Italia s’è desta
Qui Mameli, che inizia l’inno incitando alla necessaria unità per ottenere la liberazione d’Italia (con il verso “Fratelli d’Italia” sostituito su consiglio di Novaro all’iniziale “Evviva l’Italia”), riprende l’inno della Repubblica Partenopea del 1799 – di diretta ispirazione filo-giacobina -, che faceva: “Bella Italia, ormai ti desta / Italiani all’armi, all’armi / Altra sorte ormai non resta / Che di vincer, o morir”
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa
Dov’è la vittoria?!
Le porga la chioma
Ché schiava di Roma
Iddio la creò
Questi versi vanno contestualizzati nella cultura dell’Ottocento e in particolare di quei gruppi intellettuali che costituiscono le punte più avanzate del movimento risorgimentale – e ciò sarà anche uno dei suoi più grandi limiti (ma questo e un altro discorso) -, che erano profondamente intrisi di cultura e riferimenti classici, come peraltro gli stessi rivoluzionari francesi.
Il riferimento a Roma è di forte e non ambiguo significato politico, essendo l’ovvio obiettivo principale della lotta per l’unità italiana quello di liberare la Città Eterna dal dominio pontificio.
Il tema di una Terza Roma dal contenuto emancipatore universale, dopo quella della civiltà romana e quella del messaggio di Cristo, è del resto ricorrente anche in Garibaldi.
Scipio è Publio Cornelio Scipione l’Africano, condottiero romano che nel 202 a.C. sconfisse i cartaginesi di Annibale dopo che questi ultimi erano quasi riusciti a conquistare l’Italia. Assume quindi – nel contesto in cui venne scritto l’Inno – il significato di tenacia nelle difficoltà e di cacciata degli stranieri invasori dall’Italia, oltre che di esaltazione della Roma repubblicana.
Sembra quindi fuori luogo accusare Mameli di esaltazione dell’Impero romano o – ante litteram -dell’imperialismo, a maggior ragione visto che in altri testi esprime in modo chiaro la sua valutazione storico-politica sul punto (ad es.: Ove del mondo i Cesari / ebbero un di l’Impero / E i sacerdoti tennero / Schiavo l’uman pensiero / Ove è sepolto Spartaco / E maledetto Dante /Ondeggerà fiammante / L’insegna dell’amore).
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò
Qui il riferimento alla Marsigliese, e quindi alla Rivoluzione Francese – vero e proprio spartiacque politico del tempo, come lo è stata quella d’Ottobre dal1917 in poi – è quasi letterale: Stringiamci a coorte→ Formez vos bataillons.
Noi fummo da secoli
Calpesti, derisi
Perché non siam popoli
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.
Uniamoci, amiamoci
L’unione e l’amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore
Giuriamo far libero
Il suolo natio
Uniti, per Dio,
Chi vincer ci può!?
Qui il riferimento religioso è al famoso pensiero e motto mazziniano “Dio e Popolo”.
Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano
La Battaglia di Legnano, in cui nel 1176 i comuni dell’Italia settentrionale, uniti nella Lega Lombarda, fermarono la discesa di Federico Barbarossa. Chiaro il significato politico di liberazione del territorio italiano dal dominio degli eserciti stranieri.
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano
Francesco Ferruccio, il capitano che nel 1530 sconfisse l’esercito dell’Impero spagnolo che assediava la Repubblica fiorentina (altro forte riferimento al repubblicanesimo). Pugnalato alle spalle da Maramaldo, mercenario italiano al soldo straniero, scagliò contro di lui le famose parole d’infamia: «Vile, tu uccidi un uomo morto».
Difficile non vedere la forte accusa di questo riferimento storico a quanti, per convenienza personale, contribuivano alla divisione e all’asservimento del proprio stesso popolo. E difficile non vedere la grande attualità di questa accusa!
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla
Soprannome di Giovan Battista Perasso, ragazzo genovese che – secondo la leggenda – il 5 dicembre 1746 colpì un ufficiale austriaco con una pietra dando avvio alla rivolta popolare che cacciò gli austriaci dalla città.
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò
La sera del 30 marzo 1282 suonarono le campane (squille) e il popolo di Palermo insorse contro le truppe francesi di Carlo d’Angiò, che avevano occupato la Sicilia.
Gli ultimi sono i versi di contenuto politico più diretto per l’epoca, e non a caso i Savoia tentarono di proibire almeno questa quinta strofa una volta che il divieto generale si era infranto contro l’enorme popolarità che aveva ottenuto l’inno anche presso gli stessi soldati dell’esercito piemontese:
Son giunchi che piegano
Le spade vendute
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute
L’Impero austriaco faceva uso da tempo di truppe mercenarie; Mameli sottolinea quindi il loro carattere strutturalmente debole, di fronte a un esercito di popolo e in particolare alle milizie volontarie, che sono invece unite da un ideale collettivo.
Il sangue d’Italia
Bevé col cosacco
Il sangue Polacco
Ma il cor le bruciò
Anche la Polonia era sotto il giogo dell’Impero austriaco, in combutta con quello zarista, e qui si lega apertamente – con chiaro spirito internazionalista – la lotta di liberazione nazionale del popolo polacco con quella del popolo italiano; un’unione che non fu peraltro solo teorica ma che fu anche sul campo, visto che da un lato diversi polacchi diedero la vita per l’unità italiana e – dall’altro – numerosi garibaldini andarono a combattere in Polonia; su tutti basti pensare alla storia di Francesco Nullo. Non a caso,anche l’inno polacco, scritto a Reggio Emilia (!) nel 1797, fa riferimento all’Italia: Marcia, marcia Dabrowski / Dalla terra italiana alla Polonia / Sotto il tuo comando / Ci uniremo come popolo.
Conclusione
Riscoprire e riprendere i contenuti più avanzati della propria Storia nazionale è un passaggio necessario compiuto da ogni processo progressista o rivoluzionario vittorioso, basti pensare da ultimo all’America Latina di questi ultimi anni.
Certamente, in un paese del centro imperialista come l’Italia questo si deve coniugare in modo diverso, e una critica radicale e non ambigua al “proprio” imperialismo, e quindi una posizione intransigentemente internazionalista, è ciò che distingue il sano patriottismo dal nazionalismo reazionario.
È altrettanto vero però che, in un contesto in cui le istituzioni europee si arrogano sempre più potere effettivo svuotando le istituzioni costituzionali dei vari paesi membri nell’imporre misure di macelleria sociale e di privatizzazione senza precedenti, e in cui la sudditanza dell’Italia alla NATO e quindi alle esigenze di politica estera degli Stati Uniti – con la presenza di decine di basi americane sul nostro territorio – è una delle questioni più rilevanti dell’attuale situazione politica italiana, diventa centrale discutere e affrontare collettivamente il tema dell’indipendenza nazionale e della sua riconquista, come precondizione necessaria ma non sufficiente per fare una proposta politica credibile e invertire le attuali politiche antipopolari; e anche, in prospettiva, per pensare a nuove unioni continentali di tipo progressista.
Sarebbe politicamente miope e impotente tirarsi fuori da queste questioni per pregiudizio ideologico, peraltro proprio in un momento storico in cui la nostra stessa sopravvivenza come stato sovrano e indipendente è sempre più indissolubilmente legata alla necessità di una radicale trasformazione politica e sociale dell’Italia.
Fonti
– Fratelli d’Italia, la vera storia dell’inno di Mameli, di Maiorino, Tricamo, Giordana.
– Goffredo Mameli, Scritti.
– Istituto Mazziniano di Genova.
– Il Canto degli Italiani: l’Inno di Mameli, gli inni politici e la canzone popolare di Stefano Pivato.