Abbiamo in questi giorni sentito parlare ad abundantiam della recente polemica tra il ministro dell’Interno Salvini e i sindaci “disobbedienti” capitanati da quelli di Palermo e Napoli, che quel nuovo decreto sull’immigrazione e sicurezza non lo vogliono applicare perché “così non va” – citando un altro sindaco “disobbediente”, quello di Milano Beppe Sala – e domandano in primis ai suoi ideatori di concordare delle modifiche su alcuni punti critici per poi, eventualmente, “dare battaglia” costituzionale coinvolgendo la Consulta. È del tutto evidente a chi sia anche solo blandamente di sinistra che dire che il decreto Salvini “così non va” sia un disarmante eufemismo: quella che ormai è diventata la legge 113/2018 nel quasi totale (e consueto) mutismo del Presidente della Repubblica, rappresenta, ad oggi, la più emblematica summa di rozzezza e populismo, la forma più evidente, nonostante la viscosità dell’operazione, di reinserimento stabile nell’ordinamento giuridico del Paese di un principio di subordinazione etnica e sociale all’italiano e di legittima difesa dalla paura della povertà.
Concetti, purtroppo, niente affatto nuovi al senso comune, addestrato in questo senso dalla prostrazione di un decennio di crisi capitalistica mondiale e annientamento delle più importanti conquiste sociali, cui hanno fatto inevitabilmente sponda anni di deriva politica e culturale che hanno consacrato al governo due partiti i cui principi e i cui esponenti – gli uni noti per avere portato maiali al passeggio nei pressi delle moschee, gli altri per aver tentato di convincerci che secoli di progressi scientifici e medici sono solo bazzecole inutili – incarnano alla perfezione la decadenza da basso impero che stiamo attraversando.
È evidente, dunque, che per quanto sia auspicabile l’intervento della Consulta a cassare per incostituzionalità il provvedimento in questione, una dura opposizione a questo decreto, a questo governo, sia quanto mai necessaria ma non così: non attraverso una sterile contrapposizione propagandistica tra due facce della stessa medaglia, dal momento in cui noi ricordiamo bene – e forse i sindaci disobbedienti del PD fingono di no – quando toccò al decreto Minniti passare al vaglio del Parlamento e diventare legge nel silenzio tombale di ogni voce, spianando la strada alla criminalizzazione della povertà e alla creazione di un sistema a doppio binario, uno per i cittadini italiani di serie A e l’altro per quelli stranieri di serie B. È effettivamente, quello di Salvini, un decreto Minniti-Orlando più coraggioso, più ficcante, insomma, più grave, ma non di molto.
Da tempo, dunque, la lama del coltello è stata infilata con facilità come nel burro, e la “disobbedienza” di cui parlano i sindaci piddini avrebbe un che di tenero se non fosse stata appositamente ideata, come è ampiamente ipotizzabile, per divenire una rumorosa ma poco fattiva modalità di propaganda elettorale alle porte delle elezioni europee di questa primavera, dal momento in cui limitarsi a rimettere nelle mani di una istituzione la scelta di “non applicare” una legge e a rimettersi al buon senso di un collegio che ne accerti l’incostituzionalità appare una via assolutamente insufficiente in quanto eccessivamente fumosa e anche molto deresponsabilizzante di organizzare seriamente una contrapposizione necessaria e doverosa contro l’inquietante “Fortezza europea” che già Hitler sognava e che oggi attraversa la scena politica dell’Occidente.
Ben più severa e profonda è la lotta che dobbiamo oggi preparaci ad affrontare: una lotta che miri a resistere e liberarci una volta per tutte non solo di questo governo, non solo della fascistizzazione della nostra società e della polverizzazione di ogni forma di tutele e diritti conquistati negli anni e oggi scomodi, ma soprattutto del capitalismo, la matrice che ciclicamente torna a generare il marciume e il pantano che ci opprimono e ci accecano perché i migliori profitti si fanno così: mentre i poveri sono impegnati a farsi la guerra tra di loro.