La sessione a Camere congiunte del Parlamento nel corso della quale ha preso la parola il presidente ucraino Volodymyr Zelensky getta, una volta di più, una cupa e pesante ombra sul ruolo incendiario giocato dal governo Draghi nello scenario determinato dalla guerra in Ucraina.
A fronte delle richieste di Zelensky, Draghi si è scagliato contro la “ferocia del presidente Putin”, ha difeso l’invio di armi nel teatro di guerra, ha esaltato la politica delle sanzioni, ha sottolineato ed enfatizzato il ruolo di quella stessa NATO i cui progetti espansivi sono stati l’elemento detonante che ha riportato la guerra nel cuore dell’Europa.
Le parole di Draghi sono inequivocabilmente quelle di chi non vuole che la guerra cessi e non lavora a questo fine. Esse scavano un solco profondo tra il governo, le istituzioni del paese e l’aspirazione del popolo italiano alla pace, alla stabilità, alla sicurezza del continente europeo.
A Draghi occorre dare una chiara risposta: in nome del ripudio della guerra, di ogni guerra, come strumento di soluzione delle controversie internazionali e come strumento di offesa alla libertà dei popoli, occorre che il nostro paese si collochi nel campo non di chi getta benzina sul fuoco, ma di chi cerca soluzioni.
Fermare l’invio di armi verso l’Ucraina, sostenere una mediazione internazionale equa, prospettare per l’Ucraina una neutralità che garantisca la sicurezza sua, della Russia e delle popolazioni del Donbass, raggiungere un accordo rispettoso del diritto internazionale e della volontà delle popolazioni sullo status di Donetsk, Lugansk e della Crimea, sono gli elementi di cui si compone la strada verso la pace.
L’alternativa, inaccettabile e inconcepibile, l’hanno descritta le parole della replica di Draghi all’intervento di Zelensky al nostro Parlamento. L’alternativa è la guerra.