di Alessio Arena
Nell’esperienza storica occidentale e poi mondiale, i partiti politici sono andati affermandosi come elemento organizzatore della partecipazione quotidiana del popolo alla vita pubblica. Un’acquisizione, questa, decisiva, figlia del giacobinismo francese che organizzava il protagonismo dei sanculotti nella Francia rivoluzionaria prima del Termidoro. Un concetto fatto proprio dalla Costituzione repubblicana a garanzia del funzionamento della nostra democrazia nata dall’antifascismo culminato nella Resistenza e declinato nel primato attribuito, nel bilanciamento tra i poteri dello Stato, al Parlamento rappresentante dell’intera società nazionale, da eleggere con sistema proporzionale puro.
La visione della partecipazione che sta alla base della forma partito è antitetica a quella della delega e incompatibile con una concezione formalista della democrazia come incardinata sulla dinamica elettorale.
La degenerazione elettoralista, in tutto funzionale al monopolio del potere da parte delle classi dominanti, trasforma l’esercizio della partecipazione popolare da azione continuata a azione puntuale, la relega in una parentesi teatrale nella quale il linguaggio pubblicitario, la rappresentazione, diventano fattori potenti di occultamento del conflitto sociale. Disarticolare i partiti politici, sradicarne l’utilità, la necessità dal senso comune del popolo significa porre le basi per imprigionare le spinte al progresso sociale in ritualità che col tempo si fanno stanche, vuote, fino ad avvizzire piegate dall’avanzare dell’evidenza oggettiva che a niente esse valgono, se davvero si desidera un cambiamento positivo nella vita quotidiana. Le recenti elezioni regionali siciliane proprio di questo parlano, con il progresso di venti punti percentuali dell’astensionismo, che d’altra parte da molti anni interessa prevalentemente la classe operaia e, in generale, i ceti subalterni della società (42% di astensionismo operaio nel 2008, contro una media nazionale del 20% circa).
In un precedente contributo abbiamo già provato a inquadrare le conseguenze di tutto questo sul movimento comunista nel nostro paese e il suo legarsi allo sfaldamento del blocco sociale di riferimento del movimento rivoluzionario. Ci preme ora di delineare la funzione che il declino della partecipazione organizzata delle masse alla vita pubblica riveste per l’affermazione del nuovo autoritarismo tecnocratico giunto al governo alla fine del 2011.
Così Togliatti: «I partiti sono la democrazia che si organizza. I grandi partiti di massa sono la democrazia che si afferma, che conquista posizioni decisive, le quali non saranno perdute mai più. Tanto è vero che quando qualcuno è sorto per maledire i partiti, egli ha finito per organizzare il partito dei senza partito»[1]. L’attualità c’insegna come al Partito dell’Uomo Qualunque, cui sembra far riferimento la battuta che chiude la citazione, siano succeduti ben più pericolosi avversari della democrazia dei partiti, ad essi interni, che hanno spianato la strada alla pesante degenerazione del costume politico cui Monti è stato delegato a fornire la risposta reazionaria.
Una degenerazione che ha avuto il suo primo riscontro organizzato nell’affermarsi a partire dal 2005, sempre e non a caso nell’ambito del centrosinistra atlantista e “normalizzatore” in chiave neoliberista della vita nazionale, delle primarie come strumento plebiscitario da contrapporre alla “cupezza dell’apparato”, e cioè ai meccanismi regolatori dell’assunzione diretta di responsabilità e impegno personali rappresentato dall’adesione del cittadino a un partito politico.
Non è difficile argomentare come nei momenti storici decisivi d’involuzione reazionaria, sempre sia intervenuto il plebiscitarismo a imporre, attraverso la mistica identificazione masse-eletto, la liquidazione perpetrata nella vita civile dai ceti dominanti di ogni diretto coinvolgimento dei ceti subalterni nella scelta della via da far intraprendere all’intero corpo sociale, poi sempre e inevitabilmente condotto alla rovina dagli effetti di politiche tese all’affermazione degli interessi dei pochi su quelli dei molti, della spinta espansivista e reazionaria di chi, mosso dai torbidi moventi dell’arricchimento e dello sfruttamento, è strutturalmente incapace di rappresentare valori, aspirazioni, obiettivi di portata generale.
Fu così con Napoleone, normalizzatore della Rivoluzione Francese e consolidatore della nuova posizione dominante con essa acquisita dalla borghesia mercantile sia sulla vecchia nobiltà che, soprattutto, sulle masse popolari urbane e rurali. Fu così con Mussolini, intervenuto nella storia nazionale italiana per garantirne la continuità sbarrando la strada all’avanzata del movimento socialista. Infine è così con le primarie del Partito Democratico, meccanismo già sperimentato negli USA del Capitale egemone su tutto e su tutti e padrone della storia, prodotto della declinazione offerta alla logica plebiscitaria nell’era degli spot televisivi. Da questo punto di vista vien quasi da fare i complimenti a Matteo Renzi, sicuramente migliore interprete del valore profondamente reazionario dello strumento e da esso favorito a dispetto di un apparato burocratico in mezzo al guado, ideologicamente impedito a comprendere che non si può rappresentare contemporaneamente una pulsione (quella alla partecipazione vera, incarnata dalla forma partito) e il suo opposto (il plebiscitarismo delle primarie, appunto).
In questo quadro, il fenomeno rappresentato dal Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo si presenta come profondamente imparentato con quello delle primarie. Esso ne è, in sostanza, il passaggio logicamente successivo, generato e reso possibile dal dilagare della rivoluzione tecnologica. Un esperimento politico dai contorni inquietanti e limacciosi, quello del M5S, nato sulla spinta esercitata da un’azienda di editoria telematica, la Casaleggio & Associati, che annovera tra i suoi fondatori nientemeno che Enrico Sassoon, vero volto del movimento grillino, ex vicepresidente dell’American Chamber of Commerce in Italy, legato a Monti e Napolitano da un curriculum denso di punti di contatto sviluppati sotto i buoni uffici dell’Aspen Society.
Se la partecipazione delle masse rappresenta una conquista irreversibile della politica contemporanea, il movimento grillino offre alla stabilizzazione reazionaria una risposta mai tentata prima, resa possibile dalla diffusione delle nuove tecnologie e dall’effetto distruttivo da queste esercitato sulla socialità umana, ad arte sostituita dal fallace contatto, mediato dai social network, tra individui isolati nel chiuso di case trasformate in fortilizi dalle paure verso il mondo esterno. Paure, queste, indotte mediaticamente proprio al fine di rendere impossibile il cambiamento che solo la partecipazione diretta, lo scambio di prassi e pensieri tra individui in carne e ossa, rende concretamente realizzabile.
Come alla crescente partecipazione di massa alla politica del primo dopoguerra Mussolini sostituì l’imponente sforzo organizzativo delle corporazioni e dei dopolavoro fascisti per orientare la presenza delle classi subalterne nella vita nazionale e dominarla, così il grillismo usa internet per trasformare la partecipazione democratica in qualcosa d’illusorio, impalpabile, fittizio. In un non-luogo tecnologico in cui ciascuno può essere coinvolto nella facile suggestione collettiva del raggiungimento di una pretesa eguaglianza, il potere del denaro agisce senza più doversi nemmeno premurare d’investire un soggetto politico dell’organizzazione della propria egemonia. Il paravento del rapporto politico cade, rivelando la crudezza della relazione economica che lega la possibilità di padroneggiare i mezzi tecnologici con la capacità effettiva di mobilitare e disciplinare, loro malgrado, milioni d’individui inconsapevoli del nuovo stadio attinto dalla loro schiavitù.
Con Grillo e i fenomeni a lui affini (i «pirati» tedeschi, ad esempio), siamo in presenza della manifestazione dell’opposto complementare funzionale alla stabilizzazione della nuova tecnocrazia incarnata dal governo Monti. E non è un caso, infatti, se proprio il Movimento 5 Stelle va conquistando nuovi consensi, proponendosi come seconda gamba del sistema politico della Terza Repubblica progettata secondo le esigenze autoritarie poste dalla crisi. Insomma: al governo la tecnocrazia finanziaria, all’opposizione la tecnocrazia della rete.
Ai fenomeni degenerativi che abbiamo descritto è chiamato a rispondere un soggetto politico comunista rinnovato, teoricamente solido e creativo, di classe, capace di direzione intellettuale e morale della società. Inquadrare la complementarità tra le due tecnocrazie nella definizione del nuovo autoritarismo, restituire agli strumenti di cui esse si servono, si tratti delle primarie o della rete, lo spazio che compete loro, è un passaggio analitico non rinviabile per la sua costruzione. Un passaggio che i fatti del 3 novembre, la spaccatura della Federazione della Sinistra, ci dicono essere tutt’altro che prossimo al compimento.
[1] Palmiro Togliatti, Sul II Governo De Gasperi, intervento tenuto all’Assemblea Costituente il 24 luglio 1946, in Discorsi parlamentari, Vol. I, Ed. Camera dei Deputati, Roma 1984, pag. 7