Milano, 17 febbraio: militanti politici e sindacali da tutta Europa discutono dell’attacco dell’UE contro i lavoratori

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Si accende la tv, si aprono i giornali e da ogni parte si può sentire o leggere di come la governance europea sia preoccupata per la gestione delle politiche occupazionali e si impegni per trovare misure per aumentare l’occupazione. I ministri si riuniscono, discutono, nel frattempo i dati li mettono di fronte alla realtà: nella zona Eu ci sono quasi 30 milioni di disoccupati, nella sola area Euro 19 milioni. Il tasso di disoccupazione è però molto differente tra i vari paesi, quasi a voler sottolineare una volta di più i ruoli dei capi e dei subordinati, dei colonizzatori e dei colonizzati: infatti si oscilla dal 3,8% della Germania al 21,7% della Grecia. La disoccupazione giovanile under 25 colpisce il 16,5% di quella fetta della popolazione europea, il 18,7% nei paesi dell’Euro ed anche qui si vedono le caratteristiche dell’impero coloniale (6,5% in Germania, 35% in Italia, 23% in Francia, il 44% in Grecia). In Gran Bretagna si attesta sul 12%. Occorre sottolineare che non si considerano gli studenti e coloro che hanno proprio smesso di cercare un lavoro, quella generazione cioè che non studia, non lavora e non cerca un’occupazione.

Molteplici sono state le risposte al problema, ma tutte similari se non identiche e parte di un disegno comune. In Italia abbiamo visto la comparsa del Jobs Act che nella pratica cancella ogni diritto del lavoratore, per anni lo rende totalmente ricattabile con il contratto a tutele crescenti e nel momento dell’agognato contratto a tempo indeterminato con tutti i crismi del caso lo rende impotente, dato che in caso di vertenza per licenziamento ingiusto il reintegro sul posto di lavoro è un miraggio. Ancora prima inoltre abbiamo assistito alla svalutazione della contrattazione collettiva.

In Francia è stata recentemente approvata la Loi Travail, grazie al corrispettivo francese dell’italiano ricorso alla fiducia, mentre nelle strade la popolazione si sollevava. La legge infatti dà priorità all’accordo aziendale a discapito di quello collettivo ad esempio permette di diminuire gli stipendi ed aumentare le ore di lavoro non necessariamente per ragioni economiche, di aumentare il monte ore di lavoro settimanale a 46 (permessi quindi 11 ore di straordinari) e a 12 giornaliere con un semplice accordo aziendale. Viene toccata anche la disciplina del licenziamento economico in favore del padronato, che dopo soli 2 trimestri di inflessione d’affari potrà licenziare. Se il licenziamento è giudicato non corretto il lavoratore ha diritto al reintegro o al risarcimento di 6 mesi di salario non più di 12 mesi come voleva la legge precedente. Viene cancellato quasi ogni potere decisionale delle organizzazioni dei lavoratori: nel caso di accordo approvato da uno o più sindacati che hanno almeno il 30% dei consensi, l’impresa può ricorrere al referendum. In caso di vittoria dei “sì” l’intesa viene applicata e chi si oppone può essere licenziato. Cade la possibilità di veto da parte di sindacati che hanno almeno il 50% dei consensi.

In Gran Bretagna è in vigore l’Employment Right Act 1996 approvata dall’allora governo conservatore per codificare le varie normative esistenti, implementata successivamente con l’European Work Directive. Legifera anche sul licenziamento senza giusta causa lasciando però ampio margine al datore di lavoro che potrà licenziare se l’impiegato a) non è bravo nel suo lavoro, b) non è una persona piacevole con cui lavorare c) sta andando in pensione, d) è in esubero o e) il datore è obbligato a licenziare qualcuno a causa di una legge. A ciò si aggiunge la questione Brexit e gli effetti che potrebbe avere sui lavoratori britannici e stranieri.

L’obiettivo perseguito a livello europeo è chiaro: asservire il lavoratore europeo alle logiche del padronato. Il convegno che proponiamo serve a far luce su questi tentativi, sul ruolo e sui metodi di lotta che possono sviluppare le organizzazioni di classe per combattere le politiche europee del lavoro e preparare la rottura della gabbia dell’UE.

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