In occasione del suo numero 1, la rivista “Ragioni e Conflitti”, pubblicata dal Partito Comunista Italiano, ha promosso un forum dal titolo “Comunisti e sinistra di classe: che fine hanno fatto in tempi di pandemia?”, cui hanno partecipato: Alessio Arena (Fronte Popolare), Franco Bartolomei (Risorgimento Socialista), Adriana Bernardeschi (La Città Futura), Mauro Casadio (Rete dei Comunisti), Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo), Marco Pondrelli (Marx21), Marco Rizzo (Partito Comunista), Mauro Alboresi (Partito Comunista Italiano).
A ciascuno dei partecipanti è stato chiesto di rispondere a quattro domande inerenti il rapporto tra pandemia da coronavirus e modello di sviluppo capitalista, il rapporto tra la sinistra di classe e l’Unione Europea, le prospettive dell’unità tra le forze della sinistra di classe e quelle della costruzione dei una moderna soggettività comunista.
A distanza di oltre un mese dalla pubblicazione, riproponiamo l’intervento del nostro segretario Alessio Arena, che sottolinea alcune peculiarità del punto di vista di Fronte Popolare sulla fase storica che attraversiamo e sui compiti imposti dalla ricerca della via per lottare per il socialismo nel nostro tempo.
Per leggere il testo integrale del forum, è possibile scaricare il numero 1 di “Ragioni e Conflitti” cliccando qui.
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[D] Pur in un dramma per molti versi imprevedibile, l’emergenza pandemica dovrebbe aver dato a molti la possibilità di vedere che il re è nudo. Da una parte, un Paese come la Cina che addirittura offre materialmente aiuto al più potente Paese capitalistico; dall’altra parte, milioni di disoccupati privi di assistenza sanitaria e una società impegnata a tagliare o privatizzare servizi pubblici essenziali, quindi sciaguratamente inadeguata per rispondere a impellenti esigenze di sicurezza collettiva. Non pensi che ciò offra importanti spunti per una battaglia ideologica, essendo l’occasione per far riflettere sulle caratteristiche e le storture di una determinata organizzazione sociale?
[R] L’emergenza sanitaria ha reso evidenti diversi punti di collasso del modello di sviluppo attualmente prevalente nel mondo.
Negli Stati Uniti, da sempre in prima linea nell’applicazione ortodossa del modello capitalista, il dramma umano è incalcolabile, così come lo è il contraccolpo economico. Nell’Unione Europea assistiamo ai risultati dello smantellamento sistematico delle conquiste sociali strappate dalle lotte delle lavoratrici e dei lavoratori, tra le quali lo sviluppo di sistemi sanitari spesso all’avanguardia e riccamente finanziati aveva occupato una posizione di particolare importanza. Il caso dell’Italia è emblematico: sebbene il trentennio del regime di Maastricht non sia riuscito a espellere del tutto i principi della gratuità e dell’universalità dal nostro ordinamento, solo negli ultimi dieci anni la sanità pubblica ha perso 37 miliardi di finanziamento, nel contesto della sua regionalizzazione. Il servizio sanitario italiano e con esso l’intero paese, costretti a mobilitare all’ultimo momento energie straordinarie per recuperare il terreno perduto in decenni di ordoliberismo ispirato da Bruxelles, diventano così l’emblema del carattere fallimentare e pericoloso per l’umanità di un modello sociale e di un sistema di dogmi ideologici.
Occorre aggiungere un elemento: la scelta più o meno dichiarata, da parte di diversi governi delle potenze imperialiste, di perseguire la politica della “immunità di gregge” per salvare la competitività dei rispettivi sistemi economici, dice molto del carattere omicida e antiumano delle logiche della concorrenza e del libero mercato. In questo ordinamento sociale, l’economia è concepita come un campo di battaglia e, come tale, essa reclama la sua quota di caduti: una lezione che la strage quotidiana che si consuma sui luoghi di lavoro insegnava ben prima che il coronavirus facesse la sua comparsa.
Vi sono però alcuni elementi che trascendono anche questo livello di critica e investono nel suo complesso il problema dello sviluppo umano.
Da marxisti sappiamo che il capitalismo tende da un lato alla massima organizzazione delle forze produttive, dall’altro alla massima concentrazione dei profitti, e siamo ben consapevoli che il suo punto di collasso risiede proprio in questo: nella contraddizione tra carattere sociale della produzione e carattere privato dell’appropriazione. In questo momento storico, per via della rincorsa al massimo profitto e della necessità di smembrare la classe operaia in modo che non sia in grado di recuperare attraverso il conflitto sociale il peso perduto a livello politico, il capitalismo ha scelto di disseminare i diversi processi che compongono le filiere produttive e di coordinarli su scala planetaria, inventando allo scopo complessi sistemi di standardizzazione per garantirsi la massima efficienza. Vi sono poi i movimenti di capitali, che alimentano bolle speculative attraversando le piazze finanziarie del mondo intero. Questi elementi strutturali, insieme al progresso tecnologico, alla tendenziale unificazione dei mercati del lavoro in un unico mercato globale e alla maggiore accessibilità dei trasporti per le lunghe distanze, hanno generato una mobilità umana senza precedenti nella storia. Non è un caso se questo contagio si è diffuso prima nei principali centri economici dei vari paesi e si è radicato di più laddove maggiore è la produttività e anche la mobilità umana e la concentrazione di popolazione.
La crisi del coronavirus ci parla dunque indirettamente dei limiti che attualmente si trova ad affrontare il progresso umano, determinati tra l’altro dall’espansione della popolazione e dal rapporto sempre più invasivo che la nostra specie ha con l’ambiente, il quale favorisce la mutazione degli agenti patogeni e rende concreto il rischio del moltiplicarsi delle pandemie. Tutti problemi, questi, ai quali al momento non viene offerta nessuna risposta seppur lontanamente adeguata. A tal proposito, va sottolineata la coincidenza che ha fatto esplodere la pandemia proprio all’indomani del dilagare del movimento globale per il clima: un movimento dai caratteri in parte non condivisibili e dalle posizioni spesso arretrate, ma alle cui istanze noi comunisti non abbiamo saputo offrire un riscontro politico adeguato, e non solo in Italia.
Qui la lotta per il socialismo assume il suo significato più complessivo. Un significato che trascende il mero superamento della contraddizione capitale-lavoro, che pure è l’imprescindibile punto di partenza, per abbracciare quello più alto della lotta per far uscire l’umanità dalla preistoria classista e metterla in condizione di pianificare razionalmente, in modo complessivo, le priorità e le necessità del proprio sviluppo. Va riconosciuto che al nostro movimento resta molto lavoro da fare per porsi all’altezza del suo ruolo d’avanguardia su questo terreno. Se non ne saremo capaci, le redini resteranno in mano al capitale e il coronavirus non potrà che essere soltanto un anello della catena di disastri a venire.
[D] Un sondaggio condotto ad aprile da Swg, oltre ad “un notevole avvicinamento degli italiani alla Cina, al punto da preferirla come alleato rispetto allo storico partner americano”(sic!), rileva che “le dinamiche recenti hanno incrinato fortemente il rapporto dei cittadini con le istituzioni europee” e hanno fatto crollare al 27% la fiducia nell’Unione. Auspicando che un tale smottamento non sia consegnato a tutto vantaggio delle destre, non ti sembra che la stessa appartenenza del nostro Paese all’Ue sia giunta ad un bivio storico e che la sinistra di classe debba su ciò prendere posizione?
[R] L’Unione Europea ha dimostrato, anche in quest’occasione, la sua natura profonda: quella di progetto ultraimperialista delle borghesie europee. Un progetto che può essere messo in crisi dalla difficoltà di farne convivere le ambizioni egemoniche su scala planetaria e le forti contraddizioni interne.
Il coronavirus ha fatto la sua comparsa proprio nel momento in cui l’UE stava dispiegando con successo la sua strategia di ridisegno dei mercati mondiali in funzione delle proprie mire espansive. Mi riferisco in particolare ai trattati di libero commercio con Canada, Giappone, Mercosur, Australia, Messico e altri ancora. Essi fissano la modalità dell’arbitrato come strumento di soluzione delle controversie, delineando un sistema privato di produzione della giurisprudenza che nel tempo sottrarrà alle istituzioni parlamentari quote sempre maggiori della potestà legislativa nell’ambito decisivo del commercio estero. Inoltre, a Bruxelles si è stabilito che i parlamenti nazionali non saranno più chiamati, dopo il trattato con il Canada, a ratificare i successivi: gli Stati membri perdono dunque i capisaldi fondamentali del controllo su cosa entra nei mercati nazionali e, con essi, anche una quota non trascurabile del governo della politica estera. Menziono questo aspetto perché è utile a mettere in evidenza un tratto essenziale dell’UE: quello di una costruzione perfettamente oligarchica e tecnocratica, pensata per rendere quanto più possibile irrilevanti gli orientamenti dell’opinione pubblica.
Tuttavia il progetto ha dei punti deboli e l’emergenza li ha messi in luce. Innanzitutto, esso persegue l’integrazione dei mercati dei capitali, del lavoro e delle merci, salvaguardando al contempo diversi fattori di squilibrio fiscale, giuridico e territoriale. Questo aspetto comporta un ridisegno degli equilibri della ricchezza e il consolidamento di una divisione del lavoro particolarmente penalizzanti per vaste aree del continente, tra le quali si ricomprende anche la gran parte del nostro paese.
In sintesi, verso l’interno l’Unione Europea si configura come un gigantesco disegno istituzionale, monetario, economico e finanziario, volto a favorire e accompagnare il processo di concentrazione del capitale. Lo scontro intorno alla questione dei cosiddetti “coronabond” manifesta l’esplosione delle contraddizioni che tale ridisegno genera nel momento in cui le diverse società nazionali si trovano ad affrontare una crisi. L’edificio dell’UE vacilla perché la disparità di regimi fiscali, livelli salariali, percentuali d’indebitamento, rating dei titoli di debito e altri elementi ancora è la condizione necessaria per rendere l’operazione vantaggiosa per le classi dominanti e consolidare allo scopo la gerarchia tra i diversi imperialismi nazionali che fonda e consolida l’Unione.
La pace sociale e il consenso oggi s’indeboliscono in molti degli stati membri le cui classi popolari, come nel caso dell’Italia, vengono maggiormente penalizzate dalla divisione del lavoro e della ricchezza che caratterizza l’UE. Ciò apre una contraddizione di difficile soluzione per le classi dirigenti europeiste: recuperare sostegno delle masse e stabilità in quei paesi può voler dire metterli a repentaglio proprio entro i confini dei soggetti statali che guidano la costruzione europea, a partire dalla Germania. E ciò perché nei paesi “avvantaggiati” il malcontento potenzialmente pericoloso, generato dalla compressione salariale e dalla scarsa propensione agli investimenti infrastrutturali e sociali, viene tamponato proprio grazie all’abile sfruttamento dei vincoli e delle disparità garantite dalle dinamiche europee, oltre che sviato attraverso l’esaltazione ideologica di una presunta, strutturale superiorità.
Faremmo molto male, però, a pensare che la conflagrazione sia inevitabile. I motivi fondamentali sono due.
Il primo motivo è che i popoli d’Europa, in molti casi, non percepiscono l’esistenza di un’alternativa percorribile rispetto all’Unione Europea. Ciò è vero soprattutto in Italia: una vasta porzione dell’opinione pubblica teme le conseguenze economiche di una rottura con l’UE e, seppure sempre più di malumore, accetta lo status quo per pura rassegnazione.
Il secondo motivo è che, come ha insegnato l’esperienza della Brexit, manca un elemento politico in grado di porsi alla guida del processo di rottura con l’UE da sinistra. Questo è vero a livello nazionale, ma è altrettanto vero se si considera l’UE nel suo complesso. Il capitale attacca su scala continentale, ma la risposta delle sinistre contrarie all’UE non agisce sulla stessa scala e questo rende la lotta ancora più impari di quanto già non sia di suo. Dobbiamo convincerci che riconoscere l’esistenza di un livello europeo della lotta politica non significa avallare la presunta “irreversibilità” dell’integrazione europea, ma viceversa, fare i conti con la realtà per poterla trasformare.
La sinistra di classe deve dunque dire urgentemente la sua, ma in modo coerente, coordinato, profondo. Deve dare risposta al baratro spalancato sotto i nostri piedi da decenni d’integrazione ultraimperialista europea e sostenere senza ambiguità l’uscita unilaterale di ciascun paese da un’Unione a tutti gli effetti non riformabile. Ma deve fare tutto questo in modo concreto, non generico, offrendo soluzioni per il governo dell’uscita da sinistra dall’UE e indicando in modo chiaro quale debba essere la nuova fisionomia da conferire ai rapporti tra le nazioni e i popoli del continente.
Se non si percorrerà questa strada, finanche offrire risposta ai problemi delle nostre comunità locali diventerà sempre più difficile, perché la scomposizione del tessuto economico nazionale e la sua ricomposizione nell’aggregato europeo sottrae una quota rilevante della sua necessaria base materiale alla costruzione di un soggetto politico capace di essere autenticamente nazionale.
[D] Nell’attuale drammatico contesto del Paese, molti compagni vivono con irritazione il paradossale contrasto tra la conferma di molte loro convinzioni concernenti le profonde ingiustizie, le contraddizioni della società vigente e, d’altro lato, l’attuale frammentazione, l’irrilevanza politica della sinistra di classe e, in essa, dei comunisti. Qual è, a tuo giudizio, la strada per riportare sopra la soglia di visibilità una sinistra degna di questo nome e per ricostruire un forte partito comunista o di orientamento comunista?
[R] Per quanto riguarda la sinistra di classe nel suo complesso, la risposta sarebbe in teoria semplice e in parte la stiamo dando con il coordinamento per l’unità d’azione delle sinistre d’opposizione. Si tratta d’individuare punti di analisi in comune e priorità condivise per costruire una piattaforma da perseguire unitariamente. Se ciò debba investire anche l’ambito elettorale è questione delicata, ma le ultime europee hanno dimostrato come ormai, al netto di aiuti esterni e contando solo sui generosi sforzi dei propri militanti, nessuna delle formazioni della sinistra di classe sia in grado di presentarsi da sola a una competizione elettorale nazionale con una presenza omogenea su tutto il territorio. Percorriamo una via difficile, che impone di superare illusioni di autosufficienza e candidature alla primogenitura: la riuscita dipenderà dallo spirito costruttivo di tutte le forze della sinistra.
Il problema dell’unità d’azione della sinistra di classe si può d’altro canto porre anche a livello internazionale, esattamente negli stessi termini. Come non vedere, ad esempio, i vantaggi che potrebbe offrire una sorta di Foro di San Paolo dell’area atlantica, che metta a confronto le forze della sinistra d’alternativa che operano nel contesto del blocco imperialista per eccellenza?
Per quanto riguarda la ricostruzione del partito comunista, invece, la questione è decisamente più complicata e abbraccia necessariamente la dimensione internazionale. A questo proposito, la tesi di Fronte Popolare è che il problema principale sia da individuare nel venir meno del paradigma “centralizzatore” che rendeva chiaramente distinguibile il movimento comunista rispetto al resto della sinistra di classe.
Analizzando sinteticamente il percorso storico del movimento comunista (e limitandosi a quello di derivazione “terzinternazionalista”), si può osservare quanto segue. I successi ottenuti dal nostro movimento hanno portato i comunisti a misurarsi con il governo di processi reali complessi, in seno a società che riunivano centinaia di milioni di uomini e donne. La tensione tipica del marxismo a evolvere la teoria tramite l’esperienza, però, messa a confronto quella complessità, ha portato nel tempo alla definizione di principi teorici sempre più adeguati alle realtà particolari, ma al contempo sempre più distanti dal conformarsi a un paradigma generalizzabile. Principi che immancabilmente hanno finito per entrare in conflitto, rendere impossibile il riconoscimento di uno o più partiti come guida del movimento e generare la catena di lacerazioni di cui siamo eredi. Le ricadute hanno alimentato una spirale disgregativa apparentemente inarrestabile a livello internazionale e, di conseguenza, nei singoli ambiti nazionali.
A ciò si è tentato per decenni di dare risposta attraverso la mediazione “diplomatica” tra i partiti comunisti storici, operando per tenerli tutti nello stesso contenitore a scapito della chiarezza politica. Il formalismo praticato dal movimento “istituzionalizzato” su scala internazionale impedisce di vedere come attualmente l’etichetta comunista venga rivendicata, internazionalmente e nazionalmente, da soggetti della sinistra di classe che devono assolutamente cooperare, ma che spesso ormai hanno in comune quasi esclusivamente la denominazione e l’origine storica.
Parlando dell’Italia, non sembra eccessivo affermare che il pluridecennale processo di frantumazione di Rifondazione Comunista abbia radici proprio in questo. Nel nostro paese, d’altra parte, si è verificata un’ulteriore premessa specifica per l’atomizzazione del movimento comunista: la liquidazione del PCI, che ha fatto venir meno l’elemento centralizzatore oggettivo costituito dalla continuità organizzativa del partito storico.
Si pone, dunque, il problema di organizzare quello che Togliatti definiva il necessario “policentrismo” del movimento comunista internazionale, cioè di organizzare il rapporto dialettico e vivificante con la lotta di classe e con la realtà multiforme che caratterizza, sul piano nazionale e internazionale, questa fase del nostro movimento. Occorre stabilire, attraverso la pratica delle relazioni bilaterali e multilaterali, dei parametri per distinguere il movimento comunista come lo intendiamo noi rispetto al resto della sinistra di classe e, su quella base, costruire relazioni di tipo nuovo, dialettiche, operative e non formalistiche, tra i soggetti che riteniamo lo compongano. Solo per quella via è possibile definire su scala internazionale, nei suoi lineamenti attuali, una possibile identità comunista generalizzabile a soggetti omogenei per impostazione teorica, lettura dell’attuale fase storica e modalità di approccio alla realtà, e parallelamente aggregare sul piano nazionale le forze disponibili a cimentarsi in modo aperto sul terreno della ricerca e della sintesi, sviluppando un rapporto vitale con le masse.
In termini generali, possiamo quindi dire che la ricostruzione del partito comunista passa, in Italia come altrove, dalla sua “rifondazione” teorica e pratica. Ciò non può significare una cesura con il passato del movimento, neanche limitatamente ai suoi aspetti più negativi e che pure vanno riconosciuti come tali. È però urgente una piena e non reticente elaborazione della sconfitta del 1989-1991, che superi una volta per tutte la banalizzazione letale insita nelle categorie dell’alterità (l’atteggiamento di chi afferma di essere, da comunista, completamente altro rispetto alle esperienze comuniste del ‘900) e del tradimento (l’atteggiamento di chi spiega la sconfitta del ‘900 individuando momenti specifici di passaggio e singoli dirigenti o gruppi di dirigenti responsabili di aver snaturato le esperienze novecentesche).
Dall’Italia può venire certamente il buon esempio e un contributo all’altezza della nostra storia, ma perché ciò sia possibile, occorre cominciare con un deciso atto di volontà e di apertura, da parte tanto delle basi militanti quanto dei gruppi dirigenti.
[D] Quali sono, dal tuo punto di vista, le principali divergenze tra i comunisti in Italia e quali i potenziali e comuni punti di forza?
[R] In Italia il movimento comunista ha avuto per molti decenni le più solide radici di massa, influendo sul senso comune e sulla cultura degli italiani più che in qualunque altro paese dell’occidente. Si deve anche e soprattutto a questo il perdurare di una sacca residua di consenso di sinistra radicale persino in questi anni di arretramento e perdita totale di credibilità delle organizzazioni politiche. Si tratta senza dubbio di un potenziale elemento di forza per noi, ma è anche, in qualche misura, un fattore di distrazione: è stato sulla base di questo fattore che qualche gruppo dirigente si è illuso di poter puntare a marginalizzare le altre organizzazioni della nostra area politica per conquistarsi un primato che gli avrebbe dischiuso l’ascesa al consenso di massa. Quest’illusione ha costituito uno dei principali impedimenti soggettivi tanto alla costruzione di un campo largo e organizzato della sinistra di classe, quanto alla ricostruzione di un partito comunista. I fatti si sono incaricati di far evaporare queste velleità, o almeno c’è da sperare che sia così.
Non ci si può nascondere, tuttavia, che esistono elementi di debolezza molto più strutturali che non l’ostinata autoreferenzialità di qualche gruppo dirigente e la conseguente tendenza a un certo settarismo delle basi organizzate.
Si diceva prima di come, nel nostro tempo, il problema dell’identità comunista assuma una sua particolare incidenza rispetto a quello della ricostruzione del soggetto politico. Ciò avviene in misura crescente su scala internazionale, anche per effetto dell’influenza dell’egemonia esercitata dalle classi dominanti e della forza pervasiva dei loro progetti e delle loro politiche, a cominciare da quelle d’integrazione sovranazionale.
Un tipico esempio lo abbiamo in Europa, dove proprio l’atteggiamento da seguire nei confronti dell’Unione Europea apre uno dei più profondi elementi di frammentazione tra le forze che si richiamano al comunismo. Altreuropeismo, lotta per l’uscita immediata e unilaterale dall’UE, indicazione della rivoluzione socialista come premessa o unico passaggio possibile per la rottura con la “costruzione europea”: queste sono tre impostazioni radicalmente incompatibili, perché sottintendono una diversa concezione del marxismo, della lotta politica, della funzione d’avanguardia e della lotta contro l’imperialismo, ma anche perché comportano vie radicalmente diverse per dare risposta alle questioni che investono la società nazionale e il suo modello di sviluppo. È appena il caso di sottolineare come tutte e tre queste opzioni siano rappresentate nell’area che in Italia si richiama al comunismo, come è appena il caso di sottolineare quanto forti siano le influenze che vengono esercitate nel nostro paese da organizzazioni sovranazionali o anche da singole forze politiche nazionali di altri paesi dell’UE. Siamo dunque in presenza di un serio problema, che investe la teoria (concettualizzazione dell’imperialismo e dell’antimperialismo), la prospettiva strategica, la collocazione internazionale e la concezione dell’organizzazione politica.
Lo stesso problema lo ritroviamo, su scala ancora più ampia e con conseguenze persino più profonde, quando a essere presi in considerazione sono elementi come l’analisi dell’attuale configurazione del blocco atlantico, il ruolo e la natura delle potenze emergenti, la natura di classe e le prospettive del sistema cinese. Problemi, questi, che in questa sede è possibile solo enumerare, ma che costituiscono altrettanti, profondissimi elementi di divergenza tra i soggetti che si richiamano al comunismo in Italia, ma anche internazionalmente.
Per questa ragione riteniamo che unità d’azione delle sinistre e ricostruzione del partito comunista costituiscano un’inscindibile unità dialettica: l’unità d’azione apre alla definizione di una prassi comune tra soggetti nell’ambito del perseguimento di una comune piattaforma; tale esercizio comune offre uno spazio per costruire la solidarietà militante tra basi organizzate e produce un terreno concreto di sintesi politica; la sintesi politica permette d’individuare in concreto i soggetti più omogenei tra loro e di superare le contraddizioni superabili, aiutando la definizione di una comune concezione dell’identità comunista e di un comune orizzonte strategico; il progresso dell’unità dei comunisti verso la ricostruzione del loro partito cementa l’unità d’azione delle sinistre, rendendo possibile un salto di qualità della lotta di classe su scala nazionale.
Tanto la rimozione delle differenze, quanto il loro annullamento in nome della cultura delle “pratiche”, sono vie che portano alla sconfitta. I risultati di entrambe sono sotto gli occhi di tutti da tempo. Le caratteristiche della nostra epoca reclamano una risposta politica capace di delineare un nuovo ordinamento sociale e d’indicare la via per la sua costruzione. Spetta a noi assumerci la responsabilità di aprire la strada per avanzare in concreto, nelle condizioni date, verso la formulazione di quella risposta.