La fuga precipitosa delle truppe e del personale diplomatico statunitense da Kabul, che segna l’atto conclusivo del ventennio di guerra afghana con la vittoria delle milizie talebane, è un fatto storico la cui portata potrà essere pienamente misurata nei decenni a venire. E questo non solo perché la sconfitta della coalizione occidentale a guida USA in Afghanistan ridisegna gli equilibri di potere nella regione cruciale dell’Asia centrale.
Naturalmente, le conseguenze contingenti dei fatti di queste ore saranno dure e visibili, a cominciare dall’inevitabile disastro umanitario. Lo spartiacque opera però a un livello più generale, investendo un’idea dell’ordine internazionale che con oggi crolla definitivamente: quella del predominio unipolare degli Stati Uniti, della loro preminenza politica, militare e in prospettiva economica, ma anche della capacità egemonica universale della loro ideologia.
Il crollo, ampiamente prevedibile e paventato da decenni dagli stessi teorici della politica estera di Washington, giunge a coronamento dopo una lunga fase di progressivo riflusso e ritirata delle truppe statunitensi dai principali fronti d’intervento diretto aperti a partire dal 2001: dall’Iraq con Obama, dalla Siria con Trump, ora dall’Afghanistan con Biden.
L’attuale amministrazione democratica, insediatasi da pochi mesi agli esiti di una contesa elettorale che ha mostrato al mondo la profonda spaccatura che percorre la stessa società americana, a ben guardare si sta affannando a raccogliere i cocci di una serie di disastri, subendo un’impressionante quantità di rovesci in politica internazionale, dal sostanziale insuccesso del confronto del Presidente con il Consiglio europeo di qualche settimana fa allo stentato tentativo di reinterpretare la guerra commerciale con la Cina.
Quella “ultima chance” per il primato americano di cui parlava Zbignew Brzezinski in un noto saggio del 2008, pare oggi del tutto sfumata. L’appello del Segretario della NATO Stoltenberg affinché le truppe di Washington non fuggano da Kabul, marca anche simbolicamente una caduta dello stesso prestigio militare della superpotenza, rispetto al quale sarà difficile tornare indietro.
La guerra in Afghanistan, iniziata da George W. Bush ad appena poche settimane dall’11 settembre 2001, vent’anni fa rappresentò il punto apicale dell’offensiva egemonica di un’amministrazione repubblicana in carica da pochi mesi nel perseguimento della politica dello “scontro di civiltà”, che archiviava la dottrina della “fine della Storia” e l’ottimistica fede in una globalizzazione a stelle e strisce sostenuta da Clinton negli anni ’90 per volgersi a rilanciare la subalternità europea agli Stati Uniti nell’assalto alla conquista di un “nuovo secolo americano”. Come noto, quello slancio non tardò a declinare, infine infrangendosi contro l’opposizione franco-tedesca alla guerra in Iraq.
Per vent’anni, il dispiegamento militare occidentale in Afghanistan è sopravvissuto all’evidenza della crisi della visione strategica e ideologica che lo fondava, come pura occupazione di un bastione irrinunciabile di fronte al determinarsi delle condizioni per il sorgere di nuovi equilibri multipolari.
Ora il bastione è caduto. La ritirata è precipitosa. L’evidenza del fallimento è incontrovertibile, malgrado gli artifici retorici dal sapore un po’ patetico esibiti dal Segretario di Stato Blinken in favor di telecamere. E tutto ciò avviene mentre 1700 parenti delle vittime dell’11 settembre avvertono Biden di non presentarsi alla commemorazione del ventennale degli attentati, se prima non avrà tolto il segreto di Stato sui documenti riguardanti il ruolo dello scomodissimo alleato saudita nei fatti del 2001. Una vera débacle politica.
Cosa accadrà ora, per quanto concerne l’Afghanistan, è difficile dirlo. L’Emirato islamico annunciato dai talebani si appresta ad aprire una nuova pagina oscura nella storia del Paese. Certamente ciò dà ragione a quelli di noi che nel 2001, opponendosi coraggiosamente al monolitico consenso alla guerra prodotto in tutto l’occidente dalle immagini del crollo delle torri del World Trade Center, cercavano di richiamare l’attenzione, oltre che sugli interessi materiali che motivavano l’attacco e sulla sua ferocia contro le popolazioni civili, sull’assoluta impossibilità di trapiantare un modello culturale estraneo in un territorio conquistato con le armi, a scapito di un movimento in ogni caso espressione di un processo interno alla società autoctona.
Per il mondo intero, i cambiamenti saranno certamente meno evidenti a breve termine, ma assai profondi nelle implicazioni. Il crollo politico delle pretese egemoniche degli USA non vuol dire, ovviamente, la scomparsa della loro enorme potenza economica e militare, né significa l’evaporazione della loro influenza sul resto del mondo. Ma è altrettanto evidente che questo potenziale, già minato dai conflitti interni, potrà ora esprimersi entro un orizzonte di prestigio e capacità d’azione assai più angusto.
L’aumento dei margini di manovra per le ambizioni di altri attori internazionali, in primo luogo Cina e UE, determinerà in prospettiva una crescita del loro ruolo a scapito di quello degli USA che è già un fatto da tempo, ma che potrebbe subire un’accelerazione.
Probabilmente la superpotenza in affanno assumerà una politica estera estremamente aggressiva, anche se forse capace solo limitatamente di esprimersi in gesti eclatanti, nel tentativo di recuperare il terreno perduto. Ma ciò potrebbe aprire nuovi fronti di conflitto, infiacchire ulteriormente la compattezza dell’area atlantica e porre le condizioni per nuove e più profonde alterazioni dell’ordine internazionale.
Di fronte a tutto questo, il nuovo internazionalismo che Fronte Popolare ha delineato nel suo documento congressuale si fa più che mai obiettivo prioritario. O le sinistre di classe saranno funzionalmente in grado di dare una risposta in termini di azione politica alla nuova situazione che si prefigura, conferendo un’inedita centralità all’iniziativa organizzata dei settori avanzati delle classi lavoratrici del mondo intero, o l’esplodere delle contraddizioni dell’attuale ordine internazionale non potrà che produrre una nuova forma di equilibrio westfaliano tra potenze: un equilibrio armato e privo di un orizzonte etico condiviso verso il quale muovere gli sforzi dell’umanità, le cui conseguenze potrebbero assumere connotati sempre più spaventosi.