Se ne parlava da mesi. Ora arriva la comunicazione di Arcelor Mittal: la multinazionale indiana annuncia l’intenzione di rescindere il contratto con lo Stato italiano per l’affitto dell’ILVA che comprende, oltre all’acciaieria di Taranto, anche gli stabilimenti di Novi Ligure e di Cornigliano.
Pretesto scatenante: la mancata conversione in legge dello “scudo penale” per preservare l’azienda dalle responsabilità legali per il penoso stato cui sono ridotte le strutture e macchinari e per il disastro ambientale che continua a consumarsi ai danni della città di Taranto. «Non è possibile gestire lo stabilimento senza queste protezioni (…) necessarie all’esecuzione del piano ambientale», «definitivamente rimosse ieri con la mancata conversione in legge del relativo decreto», scrive l’amministratrice delegata di Arcelor Mittal Italia, Lucia Morselli.
Queste, in sintesi, le motivazioni addotte da Morselli per il recesso:
1) il venir meno dell’immunità penale sul piano ambientale con il decreto Imprese, convertito in legge nei giorni scorsi;
2) il pericolo di veder spento l’altoforno 2 su ordine della magistratura, a causa della mancata adozione delle misure di sicurezza prescritte, cui potrebbero seguire, per le stesse ragioni, anche gli altiforni 1 e 4;
3) “il generale clima di ostilità” che renderebbe impossibile la gestione dell’azienda a un gruppo già condannato lo scorso maggio per condotta antisindacale nel processo di selezione sia degli assunti che degli esuberi.
Il governo Conte replica sostenendo che la questione dello scudo legale sia pretestuosa e che non vi sia alcun diritto al recesso garantito al gruppo indiano: «La norma sullo scudo penale non era nel contratto e non può essere invocata per giustificare il recesso», ha affermato Conte. «Ricordo che ci sono circa 1.300 persone già in cassa integrazione. Ciò dimostra che il governo si è sempre occupato delle questioni legate anche al ciclo produttivo, e il governo si farà carico come sempre di questi problemi. Bisogna capire però la prospettiva qual è. La prospettiva deve essere il rispetto del piano industriale che prevede una produzione di 6 milioni di tonnellate annue con una capacità che può arrivare a 8 milioni, questo il governo chiede», ha dichiarato a sua volta il Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli.
Si consuma così l’ennesimo atto della penosa e cinica farsa messa in scena dalla politica intorno al caso ILVA. Una farsa che serve a nascondere la realtà: la siderurgia italiana è stata privatizzata e svenduta, uno dei settori strategici della nostra industria è stato abbandonato a se stesso, si sono permessi decenni di devastazioni del territorio e crimini sulla pelle delle lavoratrici e dei lavoratori e di un’intera città, Taranto, sospesa tra la catastrofe sociale e quella ambientale e sanitaria.
La lista dei responsabili è lunga, da Dini e Prodi a Calenda e Di Maio. Il movente è noto: il profitto privato, in nome del quale si è consumata la stagione delle privatizzazioni che ha consegnato quanto restava di quella che fu l’Italsider alla gestione dissennata del gruppo Riva.
Arcelor Mittal, cui ILVA fu assegnata con decreto firmato da Calenda nel 2017, ha raggiunto l’accordo attuale con lo Stato italiano appena un anno fa. Tutte e tutti ricordiamo i toni trionfalistici usati dall’allora Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico del governo Lega-M5S, Luigi Di Maio, per salutare l’intesa. Solo pochi mesi e la truffa è smascherata.
Vedremo ora cosa s’inventeranno, i politicanti al servizio dei mercati e degli speculatori, per tentare di salvare la situazione disperata cui ci hanno portati. Qualunque soluzione propongano, sappiamo già che di certo non sarà nell’interesse delle lavoratrici e dei lavoratori, della città di Taranto, dell’ambiente e della salvaguardia della nostra economia produttiva.
Già in occasione dell’annuncio dell’accordo Di Maio, la nostra posizione era chiara: «Per noi esiste un’unica via: il rilancio della produzione industriale tramite un piano d’intervento statale nell’economia che riporti il settore pubblico alla guida dello sviluppo economico italiano. Solo un intervento pubblico garantito da una solida base istituzionale democratica e dal protagonismo organizzato delle lavoratrici e dei lavoratori può conciliare, in casi come quello di Taranto, politica industriale, tutela ambientale e occupazione, mantenendo e accrescendo la capacità del nostro Paese di produrre ricchezza. Ma ormai è chiaro: nell’era delle grandi esportazioni di denaro, delle speculazioni e dell’accelerazione della concentrazione capitale, solo le classi lavoratrici organizzate possono mettersi alla testa di una simile trasformazione della struttura economica. Il declino italiano non si fermerà, se non saremo noi a organizzarci per fermarlo!»
BASTA SPECULAZIONE! BASTA PRIVATIZZAZIONI!
NAZIONALIZZAZIONI ORA!