Referendum sul taglio dei parlamentari: il nostro NO alle riforme costituzionali come merce di scambio contro il popolo

Testo approvato dalla Segreteria Centrale di Fronte Popolare

Domenica 20 e lunedì 21 settembre saremo chiamati alle urne per il referendum confermativo della riforma costituzionale, fortemente voluta dal Movimento 5 Stelle, che riduce il numero dei parlamentari: da 630 a 400 i deputati, da 315 a 200 i senatori.

Il tema delle riforme costituzionali è assai spinoso. In particolare, la questione del numero dei componenti del Parlamento è stata a lungo dibattuta. Essa s’intreccia con quella della rappresentatività delle Camere, ma anche con il problema del peso specifico che esse assumono nel nostro ordinamento e più in generale, del modello di partecipazione politica che s’intende promuovere.

Prendendo in considerazione il problema della rappresentatività, la riforma su cui siamo chiamati a esprimerci fa dell’Italia il grande paese europeo con il Parlamento più piccolo in rapporto alla popolazione: un deputato ogni 151 mila abitanti (con il regime attuale siamo a uno ogni 96 mila) contro uno ogni circa 100-110 mila di Regno Unito, Francia e Germania. Quanto al Senato, ciascun senatore passerà a rappresentare circa 300 mila elettori contro i precedenti 190 mila.

Che ciò produca in sé un danno democratico sostanziale, dipenderà in buona parte da quale criterio verrà fissato per l’attribuzione dei seggi nella nuova legge elettorale, che si annuncia pessima e non sarà soggetta a nessun referendum confermativo. Il problema sottostante è però quello del variare della composizione e distribuzione demografica della popolazione: in questa prospettiva, è prevedibile che a pagare il conto in termini di rappresentanza saranno soprattutto le regioni del meridione e le isole, vittime da anni di una nuova, drammatica fase di desertificazione e spopolamento.

Vi è poi la contesa circa che tipo di sviluppo concreto si voglia dare alla partecipazione democratica. Da questo punto di vista non ci si può dimenticare come la messa in discussione tanto del bicameralismo come della struttura e della composizione del nostro sistema parlamentare sia in effetti più volte venuta dagli ambienti della sinistra radicale. Solo a titolo esemplificativo della complessità del dibattito sviluppatosi in merito nei nostri ranghi, citeremo come Lelio Basso scrivesse in un saggio del 1958: «Personalmente credo […] che la struttura del Parlamento sia antiquata, che il bicameralismo non sia certo da considerarsi un elemento di sviluppo della vita democratica, che la norma dell’indipendenza politica dei parlamentari dai loro elettori sia anacronistica e assurda, che il sistema dei partiti non sia sufficientemente valorizzato»[1]. Più recentemente, il Partito della Rifondazione Comunista dei primi anni ’90 faceva propria la proposta del superamento del bicameralismo e del dimezzamento del numero complessivo dei parlamentari[2].

Noi non rinneghiamo la complessità di quella discussione, così come non intendiamo in nessun modo negare che, in linea di principio, la Carta Costituzionale possa essere migliorata nella parte attinente alla struttura e alla vita delle istituzioni. Dobbiamo anzi sottolineare come il patto costituzionale sia già stato rotto due volte, con la riforma delle autonomie locali e poi con l’inserimento del pareggio di bilancio e come quindi ci si trovi già oggi in un regime essenzialmente diverso da quello del 1948. Delle riforme sono quindi necessarie, se non altro per questo motivo.

Il nostro approccio alle questioni costituzionali è quello di chi, erede della Resistenza e convinto della necessità che la Carta sia strumento di costruzione del potere popolare, ossia di piena, assoluta e profonda democratizzazione della società e dello Stato, lotta perché i suoi contenuti progressivi trovino piena e integrale applicazione a cominciare dalla prima parte, quella che include i principi fondamentali e i diritti.

Se si assume questo particolare punto di vista, occorre innanzitutto ricordare come la vita delle istituzioni rappresentative rappresenti solo un sottoinsieme del modello democratico fissato dalla Costituzione. Un modello che non enfatizza la delega, ma al contrario attribuisce centralità alla partecipazione popolare diretta, sviluppata giorno per giorno attraverso l’azione organizzata delle cittadine e dei cittadini per determinare gli indirizzi della vita economica, sociale, civile e istituzionale. È questo il concetto alla base della famosa locuzione secondo cui «la sovranità appartiene al popolo», fissato nell’articolo 1 del dettato costituzionale.

Così concepita, ogni espressione organizzata della partecipazione viene elevata al rango di esercizio di sovranità da parte del popolo: certamente il funzionamento delle istituzioni, ma anche la vita delle organizzazioni di massa, le proteste politiche delle opposizioni, le rivendicazioni sindacali e le lotte sociali. In questo contesto va inquadrata, ed è elemento centrale, la costituzionalizzazione del ruolo dei partiti con l’articolo 49.

È in quest’ottica che quanto avviene ormai da decenni in Italia – inclusa quest’ultima riforma, ma come parte di un processo politico assai più vasto – mostra tutto il suo carattere antidemocratico.

Il sistema dei partiti è stato sistematicamente oltraggiato, delegittimato, umiliato. Si è organizzato l’allontanamento delle grandi masse dalla vita politica per riaffermare un modello di “partito” come espressione di conventicole e gruppi d’interesse. Quel modello, entrando in contraddizione con il contenuto più profondo delle conquiste democratiche della contemporaneità, ha a sua volta conferito un’apparente legittimità alla chiamata alle armi rivolta alla cittadinanza contro la “partitocrazia” e all’affermazione di nuove forme di plebiscitarismo e concentrazione del potere politico nelle mani di esecutivi sempre meno vincolati al consenso popolare.

La riforma che oggi ci troviamo a valutare è figlia di questo processo. È una riforma che asseconda e alimenta il rifiuto della politica e che lo volge alla delegittimazione del Parlamento, presentando il taglio del numero dei parlamentari come una misura punitiva nei confronti della “casta” e della “partitocrazia”, mentre essa invece punisce il popolo, perché alleggerisce il peso delle Camere da esso elette e cancella con un colpo di spugna propagandistico il vero motivo di allarme democratico che scaturisce dal modo in cui oggi si organizza la vita delle nostre istituzioni.

La realtà è che, a settantadue anni dall’entrata in vigore della Costituzione, ci ritroviamo con un’organizzazione della partecipazione delle masse alla vita politica e sociale ridotta ai minimi, con un Parlamento ostaggio di esecutivi invasi da tecnocrati che si sottraggono sistematicamente al vaglio democratico del loro operato, con “partiti” che praticano al loro interno il plebiscitarismo e il leaderismo più sfrenati per coprire collusioni inconfessabili con i grandi potentati dell’economia e della finanza, con un sistema di norme repressive di ogni genere, fissate dal legislatore per disarticolare il conflitto sociale e rendere impossibile che si organizzi.

Come parte di tutto ciò, abbiamo la pressione bipartisan per l’autonomia differenziata che svuota il concetto stesso di cittadinanza rendendo praticamente impossibile l’uguaglianza dei diritti tra le cittadine e i cittadini, mentre dall’alto l’Unione Europea confisca qualunque forma di controllo sulla maggioranza delle questioni decisive.

Giunti a questo punto, l’umiliazione definitiva di un’istituzione come il Parlamento, che dovrebbe essere posta a garanzia della sovranità popolare e che invece è sistematicamente sequestrata dall’onnipotenza degli esecutivi, non è che il coronamento di un lungo processo di assassinio delle conquiste democratiche del nostro popolo, cominciate con la Resistenza vittoriosa sul fascismo di cui le classi lavoratrici furono alla guida.

Non è un caso che il taglio dei parlamentari sia nato com’è nato: come frutto di un mercanteggiamento di palazzo tra il M5S e la Lega prima e tra lo stesso M5S e il Partito Democratico poi. Un balletto pornografico di voti favorevoli e contrari espressi per mero interesse di bottega, nel disprezzo più assoluto della materia che si stava trattando. Una riforma della Legge fondamentale dello Stato intesa come nulla più di una mera contropartita per consentire la nascita del governo Conte I e poi del Conte II. Nessun contenuto concreto, nessuna cura per la salute della democrazia persino nella sua accezione “liberale”, che anzi è stata ancora una volta minata. Nessuna utilità pratica. Un mero baratto, attraverso cui si sancisce la trasformazione in senso comune dell’idea che il Parlamento sia un organismo sostanzialmente inutile, da sottomettere alle logiche del potere esecutivo e quindi alla cultura plebiscitaria, ma si porta anche a compimento la controrivoluzione culturale che, nell’arco di pochi decenni, ha ucciso la partecipazione popolare alla politica nel nostro paese e quindi ha sparso il sale sulle rovine di quelle che un tempo furono le primordiali impalcature del nostro potere popolare.

Noi diciamo dunque NO alla riforma costituzionale non tanto perché riteniamo che un Parlamento più piccolo debba per forza essere meno forte o meno legittimo.  Noi diciamo NO alle riforme costituzionali come merce di scambio per formare i governi, ai partiti che non sono più partiti ma clan e assembramenti di conventicole asserviti al potere del denaro, al plebiscitarismo, alla distruzione della partecipazione, all’annientamento dell’uguaglianza formale e sostanziale tra le donne e gli uomini di qualunque angolo d’Italia, al soffocamento degli spazi per l’esercizio quotidiano, da parte del popolo, della sovranità che la Costituzione gli attribuisce.

Il nostro rifiuto della riforma costituzionale non è però pura negazione. Riteniamo che non si andrà lontano se la sinistra di classe non saprà finalmente dotarsi di un programma organico da porre alla base della lotta per resuscitare gli istituti della democrazia e la partecipazione popolare. Ciò deve includere necessariamente una nostra idea indipendente circa come vadano riformate le istituzioni dello Stato per venire incontro alle esigenze poste dall’urgenza di applicare davvero, finalmente, il contenuto trasformatore dell’esistente della Costituzione.

Proponiamo a tutte le formazioni della sinistra di classe che come noi sentano questa urgenza, al di là della campagna per far vincere il NO nella consultazione del 29 marzo, di dar luogo nel minor tempo possibile a momenti di confronto per delineare una piattaforma di proposte relative alla riforma delle istituzioni su cui costruire mobilitazione. Anche da questo dipenderà, a nostro avviso, la possibilità di rilanciare in avvenire la lotta per trasformare il nostro Paese.

***

[1] Lelio Basso, Il Partito Socialista Italiano, L’Ornitorinco Edizioni (Milano 2016), pag. 129

[2] Vedi: https://www.youtube.com/watch?v=c2RF80H6Nts

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