Il comunismo cresce nel cuore dell’Europa: parla Raoul Hedebouw del Partito del Lavoro del Belgio (PTB)

1491743_181983458661867_1919985404_nSe i modelli stranieri non esistono e non si può esportare meccanicamente in una realtà nazionale ciò che ha avuto successo in un’altra, è pur vero che si possono trarre dall’esperienza di altri popoli utili insegnamenti e indicazioni metodologiche per la ricostruzione della soggettività rivoluzionaria nel nostro paese.

Una delle esperienze europee più interessanti a questo fine è sicuramente quella del Partito del Lavoro del Belgio (PTB), un partito ex maoista ancora estremamente minoritario all’inizio degli anni Duemila, che è riuscito in poco più di un decennio nello storico risultato, concretizzatosi questa primavera, di riportare dei comunisti nel parlamento nazionale per la prima volta dal 1985, riunendo attorno a sé tutta la sinistra di classe ed eleggendo due deputati. Un successo elettorale non figlio della congiuntura, ma di un lungo lavoro di radicamento nelle fabbriche e nei quartieri, oltre che di un processo di evoluzione ideologica che ha fatto del PTB un partito marxista-leninista dinamico e propositivo, capace di dare applicazione al modello comunista di organizzazione e rinnovare la sua immagine e la sua comunicazione in modo da saper parlare al senso comune dei lavoratori della «metropoli capitalista» in modo comprensibile e accattivante, senza nulla cedere sul piano del rigore teorico e analitico.

Per approfondire questo esperimento virtuoso, proponiamo ai nostri lettori la traduzione di un ampio stralcio di «Première à Gauche», libro-intervista realizzato da Gilles Martin con Raoul Hedebouw, portavoce del PTB e neo-deputato federale, cui vanno i nostri ringraziamenti per il consenso accordatoci alla traduzione e pubblicazione del suo scritto. Il testo, uscito presso l’editore Aden nell’autunno 2013 all’inizio di un’annata politica storica per il PTB, costituisce un prezioso spunto di riflessione per noi, comunisti italiani, circa i doveri e le possibilità che abbiamo davanti nella fase attuale e come esserne all’altezza. N.d.R.

***

Dovendo presentare il PTB in poche parole, cosa diresti?

Il PTB è un partito marxista che conta più di settemila iscritti[1]. Siamo attivi in più di quaranta città del paese. Inoltre abbiamo la specificità di avere ancora delle sezioni aziendali, perché crediamo nei luoghi di lavoro come centri di resistenza e di lotta. Centoventi di queste sezioni si riuniscono mensilmente a questo fine. E ancora, siamo uno degli ultimi partiti nazionali[2] del paese, perché per noi la solidarietà al di là della frontiera linguistica non è una parola vuota. Il PTB è davvero un partito sfaccettato, attivo su molti terreni differenti: dalla lotta per i salari alla solidarietà con il Terzo Mondo, passando per la condizione femminile, il diritto alla cultura, o ancora la battaglia per dei comuni al servizio della gente e quella per un’alternativa ecologica e durevole per il nostro ambiente. Siamo anche un partito militante e invitiamo tutti gli iscritti che lo desiderino e ne abbiano la possibilità a riunirsi una volta al mese nelle nostre strutture di base. Il PTB ha anche un’organizzazione giovanile, COMAC, attiva in tutti i campus universitari del paese e in molte scuole superiori. Il PTB è inoltre i centri di assistenza medica di Médecine pour le Peuple, dove realizziamo ciò che vorremmo esistesse in grande: venticinquemila pazienti vi hanno accesso a una medicina gratuita e di qualità. Infine direi anche e soprattutto che siamo il partito di sinistra che vuole ancora battersi per un’altra società, un società socialista secondo il principio «prima le persone, non i profitti».

Ascoltandoti, ciò non corrisponde all’etichetta di partito estremista che a volte si attribuisce al PTB.

No, il PTB non è un partito estremista, ma un partito di sinistra. Se si devono dare delle etichette, la nostra è semplicemente quella della sinistra: sono gli altri partiti che si sono evoluti verso il centro e verso la destra. Dove sono veri estremisti? Sono nelle multinazionali che decidono di chiudere industrie importanti come quella siderurgica a Liegi o quella automobilistica a Genk, mettendo alla porta migliaia di famiglie. Con tutti i drammi conseguenti, compresi i suicidi come quello dell’operaio siderurgico Alain Vigneron. Essi si trovano nei partiti politici che vogliono escludere i disoccupati. Questo è estremismo, violenza sociale. Quando si parla di estremismo, è lì che bisogna cercarlo – assolutamente non nel PTB. È un’etichetta menzognera. Basta osservare il lavoro dei nostri consiglieri comunali: essi rappresentano un’opposizione forte, ferma, siamo d’accodo, ma non estremista. I nostri consiglieri sono costruttivi, dinamici, presentano proposte concrete, e io invito ogni persona curiosa di conoscere l’azione politica del PTB a partecipare a un consiglio comunale.

Se qualcuno afferma che il PTB sia un partito di «estrema sinistra», lo scopo è spesso di compararci insidiosamente con l’estrema destra, secondo la falsa equazione che vuole che «i due estremi si tocchino». Chiaramente noi non abbiamo nessun punto in comune con l’estrema destra: noi difendiamo la solidarietà, siamo contro il razzismo, difendiamo l’eredità di tutte le lotte sociali che hanno forgiato il nostro presente. Il PTB è un partito agli antipodi di quelli di estrema destra.

La specificità del PTB a sinistra è il rifiuto delle regole del gioco del liberismo e del capitalismo in Belgio. Noi rifiutiamo di scegliere tra la peste e il colera. E usciamo effettivamente dal quadro proposto dai partiti tradizionali.

In PTB c’è la T di «travailleurs» (lavoratori). Quella «T» non è un po’ superata? La classe operaia oggi esiste ancora?

Occorre distinguere due cose: da una parte, l’evoluzione oggettiva della composizione di classe della nostra società occidentale, dall’altra parte la coscienza di classe. Soffermiamoci anzitutto sulla questione della composizione di classe. Dal punto di vista mondiale, constatiamo che la classe operaia non è mai stata così numerosa. Dei cambiamenti importanti hanno avuto luogo tra il 1950 e il 2000: l’agricoltura, che rappresentava il 67% della categoria professionale dell’umanità nel 1950 non ne rappresenta più che il 46% nel 2000. Quanto ai lavoratori dell’industria, sono passati dal 15 al 20% e l’industria dei servizi è passata dal 18% al 34%. Globalmente, dunque, nel mondo si osserva una diminuzione del numero di agricoltori e un aumento del numero dei salariati nell’industria e nei servizi. E ogni giorno questa evoluzione si amplifica. A livello mondiale, la classe operaia è innegabilmente in aumento.

E in Belgio?

Occorre avere una visione allargata della composizione della classe operaia: essa non si limita alle «facce nere» che lavorano in miniera. Ciò d’altra parte corrisponde alla definizione di Marx: la classe operaia raggruppa l’insieme dei lavoratori che vendono la loro forza lavoro e vivono dunque del loro salario. Nel 2013 si contano quattro milioni di lavoratori salariati in Belgio. Se si parla invece della classe operaia nell’industria, vi è una diminuzione in Belgio, ma essa è molto meno forte di quanto si pensi. Nelle statistiche si presenta generalmente una distinzione tra lavoratori attivi nell’industria da una parte, e dall’altra parte i lavoratori del settore terziario. Ma il settore terziario racchiude realtà molto differenti. Se si vuole analizzare quanti lavoratori siano ancora attivi in quello che Marx chiamava il proletariato industriale, occorre che siano contabilizzati tutti i lavoratori attivi nel settore terziario dei servizi alle imprese. Lavoratori che un tempo lavoravano per la casa madre ma si ritrovano oggi in imprese di servizi esternalizzate, ad esempio l’amministrazione, il trasporto, la logistica, la manutenzione… Tenendo conto di questi settori ormai esternalizzati, si contano in Belgio almeno un milione e centomila lavoratori attivi nell’industria nel senso classico del termine.

Eppure si ha talvolta l’impressione che la coscienza operaia sia meno presente che nel passato.

È una questione di visione ideologica che la classe operaia ha di se stessa, una questione di coscienza di classe. Il sentimento di appartenere a quel «noi, lavoratori» in rapporto a «loro», i banchieri, il padronato, può fluttuare. Ma mi sembra che ciò sia innanzitutto dovuto a una regressione della coscienza politica, piuttosto che a una mutazione sociologica della classe. La diffusione dell’individualismo e quella della «unione delle forze vive», presentissima nella retorica della sinistra governativa, crea una grande confusione ideologica. I presunti interessi comuni non lo sono per niente. Si tratta di una battaglia puramente politica, la stessa in cui si sono dovuti cimentare i pionieri del mondo sindacale e operaio. Non idealizziamo la storia: la coscienza operaia non è apparsa spontaneamente cinquanta o cento anni fa. Gli operai che giungevano nelle miniere dalla Vallonia, dalle Fiandre, dall’Italia o dalla Polonia non avevano alcuna coscienza di classe operaia. È perché i militanti si sono fatti carico dell’educazione operaia nelle miniere che quella coscienza è nata. L’unità del mondo del lavoro è stata il frutto di un lungo lavoro di educazione svolto da quei primi militanti sindacali e politici. Non nego oggi una regressione della coscienza che la classe operaia ha di se stessa, ma sta appunto a noi, la sinistra, di riprendere la fiaccola per ricostruire questa ideologia. È stato questo il senso della nostra campagna lanciata per il 1° maggio 2013: «Senza lavoratori, niente ricchezze!»

Fai spesso riferimento alla storia del movimento operaio. C’è quindi molto da apprendere da essa?

Assolutamente. I pionieri del movimento operaio hanno dovuto risolvere dei grossi problemi: contrariamente a quanto si pensi, il sindacalismo ha fatto molta fatica a radicarsi nelle grandi imprese, perché la repressione era feroce. Esso era tradizionalmente molto più radicato nelle piccole e medie imprese e nell’artigianato. Oggi, la trasformazione delle tecniche di produzione impone nuove sfide per il movimento politico operaio e il movimento sindacale. Per esempio il fatto che, in certe imprese, un operaio ogni due sia soggetto a intermediazione di mano d’opera implica d’immaginare un nuovo tipo di sindacalismo. Penso in particolare al sindacalismo di rete: su uno stesso luogo di lavoro, una rappresentanza sindacale è responsabile non solo dei lavoratori dell’impresa, ma anche di quelli contrattati tramite intermediari che vengono a lavorare sul sito. È una prima risposta allo spezzettamento giuridico della classe operaia. Insisto sul «giuridico» perché, dal punto di vista della produzione, non ci sono mai stati tanti lavoratori riuniti nelle grandi imprese strutturate a livello mondiale. Oggi Walmart occupa un milione e duecentomila salariati. Sodexo, l’azienda di ristorazione, impiega trecentocinquantamila lavoratori. La concentrazione tocca dunque un livello inedito. Il problema è che l’organizzazione politica e sindacale dei lavoratori non si è ancora adeguata. Dobbiamo ispirarci a tutti i pionieri che hanno dovuto rispondere a delle questioni molto più ardue e complicate – ai loro tempi, i lavoratori non sapevano nemmeno leggere e scrivere! È questa fiaccola che noi vogliamo riprendere, è con questo entusiasmo che vogliamo progredire e affrontare tutte queste sfide.

Il successo non comporta il rischio di essere, come molti dirigenti politici, inghiottiti dal potere e dal denaro?

Karl Marx un tempo ha scritto: «Non è la coscienza degli uomini che determina la loro esistenza, è al contrario la loro esistenza sociale che determina la loro coscienza». In altre parole, non è il modo di pensare che determina la maniera di vivere degli uomini. Al contrario, è la maniera di vivere che spiega il loro modo di pensare. Lo si vede con chiarezza nei liberali. Nel Partito socialista il fenomeno è meno visibile, ma non sono del tutto insensibili al fenomeno del socialismo da ricchi, soprattutto certi amministratori intercomunali. Come per esempio Stéphane Moreau, borgomastro PS di Ans e padrone di Tecteo, di cui si evoca il reddito da 500.000 euro annui. Se i dirigenti politici hanno uno stile di vita simile a quello dei grandi padroni, immancabilmente si stabiliscono degli interessi convergenti. D’altra parte è difficile comprendere le difficoltà che ha la gente a pagare le bollette della luce quando si è tanto lontani dalla vita reale. Limitare la remunerazione dei rappresentanti politici sarebbe una buona cosa. Nel PTB, la regola interna per gli eletti è di vivere contentandosi del salario medio operaio. Perché un dirigente politico dovrebbe guadagnare 7 o 8.000 euro al mese? Con questa evoluzione della socialdemocrazia si va affermando un sistema di caste, e constatiamo una vera e propria cesura tra il modo di vivere dei politici e quello dei comuni mortali. Eppure è possibile vivere con 1.500 euro netti al mese, ve lo assicuro: è il mio caso.

Per i consiglieri comunali del PTB vale lo stesso principio.

Sì, tutti i gettoni di presenza degli eletti del PTB vengono versati al partito. Perché un rappresentante istituzionale dovrebbe ricevere un indennizzo quando il militante non eletto che lavora quanto lui non riceve niente? Io non concepisco che dei deputati possano guadagnare più di 2.000 euro al mese.

In effetti gli eletti godono attualmente di molti vantaggi, cosa che è evidentemente attrattiva.

La funzione dei deputati e dei ministri è politica. Dunque è anche per mantenere la politica sana che i nostri politici non devono guadagnare troppo denaro. È il miglior modo di evitare le derive. Nel PTB è molto semplice. Da noi, il salario dei nostri quadri e a fortiori dei nostri eventuali futuri parlamentari sarà limitato intorno ai 1.600 – 1.800 euro netti al mese. Questa è la nostra filosofia. Nessuno nel paese è obbligato a fare il deputato. Essere un deputato al servizio dei lavoratori non è un mestiere come un altro; e, dunque, limitare gli stipendi permette appunto di distinguere chi cerca di far soldi e di costruirsi una carriera da chi vuole davvero servire i lavoratori.

Si parla spesso del PTB come di un partito emergente, ma sono trentacinque anni che siete attivi. Come spieghi la recente scalata del PTB alla ribalta della politica?

Il partito è comparso sull’onda del movimento studentesco del Maggio ’68, al tempo della guerra in Vietnam. Evidentemente io non ero ancora nato e riferisco quello che mi hanno raccontato i più anziani! Nelle Fiandre, il movimento del Maggio ’68 aveva inizialmente una fortissima componente comunitaria, dal momento che la parola d’ordine era il famoso «Walen buiten», ossia «Fuori i valloni» dalle università fiamminghe. Gli studenti fiamminghi all’origine della creazione del PTB sono riusciti a trasformare la battaglia dal «Walen buiten» a «Bourgeois buiten» (fuori i borghesi), facendo riferimento all’influenza borghese predominante nei campus universitari dell’epoca. A quei tempi nei campus universitari belgi hanno visto la luce decine di gruppuscoli di sinistra. Il PTB è una delle sole organizzazioni ad esistere ancora oggi. Se il PTB è riuscito a sopravvivere, è perché non è rimasto nella nicchietta degli studenti che passavano le serate a fantasticare di cambiare il mondo. Sin dall’inizio ha voluto lavorare sul terreno, nelle fabbriche e nelle aziende, nel cuore delle lotte sociali dell’epoca, fossero esse la lotta dei minatori, dei siderurgici o degli operai dei cantieri navali. È stato sempre negli anni ’70 che hanno visto la luce i primi ambulatori medici di Médecine pour le Peuple. Oggi incontro ancora spesso degli anziani lavoratori che mi dicono: «Venti, trent’anni fa eravate già al nostro fianco nelle battaglie. Col vento o con la pioggia, i vostri militanti erano già a quell’epoca alle porte delle nostre fabbriche per sostenerci». Forse non si portano più i pantaloni a zampa d’elefante e lo stile è un po’ cambiato ma, per la giovane generazione del PTB, questa continuità è ragione di grande fierezza.

Ma insomma, non era tutto rose e fiori. Di qui la ragione dei cambiamenti importanti che hanno avuto luogo nel 2008, in occasione del nostro ultimo congresso. Abbiamo rimesso in discussione in profondità il nostro metodo di lavoro, il settarismo e il dogmatismo del nostro partito. Non volevamo più essere il partito che afferma di detenere LA verità da solo, ma piuttosto un’organizzazione politica che cerca di costruire delle alternative con la gente e le organizzazioni sociali del paese. Volevamo anche essere capaci di unire le persone per ottenere delle piccole vittorie, per quanto modeste possano essere. Per rendere ai lavoratori anche la fiducia nella loro possibilità di cambiare le cose. Nella composizione del partito, volevamo allo stesso modo essere un partito che lavori con le persone, e soprattutto un partito del lavoro che doveva a se stesso di diventare un partito di lavoratori. È stato sempre in quel momento che abbiamo aumentato la nostra attenzione alla comunicazione, per rendere il nostro messaggio udibile. Abbiamo voluto cambiare tutto questo, e la gente se n’è accorta. Come si vede in particolare con la nostra evoluzione elettorale. Il PTB aveva cinque consiglieri comunali nel 2000, è passato a quindici nel 2006 e nel 2012 a cinquantadue!

E poi c’è anche il vostro rapporto con paesi socialisti come la Cina, Cuba, l’URSS.

Anche questo è cambiato. Per molto tempo il nostro partito si è voluto ambasciatore di tutto ciò che era successo nella storia del movimento comunista e in tutti i paesi. Noi non siamo gli ambasciatori di un qualsivoglia paese. Il PTB è innanzitutto un partito «PTBista», come dico spesso: ha la vocazione di sviluppare una visione del socialismo in Belgio, un socialismo applicato al XXI secolo, certamente imparando le lezioni del passato, ma rivolto verso l’avvenire. Ed è a partire da qui che continuiamo a sviluppare una solidarietà internazionale.

Ma vi riconoscete nella definizione di comunisti?

Sì. Nella parola comunismo c’è «comune», c’è il collettivo. È un’idea molto moderna! Le risorse ecologiche come la conoscenza accumulata dall’umanità devono essere riconosciute come patrimonio comune. Nessuno ha il diritto di monopolizzarle nel suo esclusivo interesse e per il proprio profitto. Le forme di ricchezza più importanti appartengono a tutti, sono beni comuni che devono essere attivamente protetti e gestiti nell’interesse di tutti.

È una scelta di società di fronte al capitalismo in crisi. Si tratta di rimettere al centro del dibattito ideologico e politico la necessità di una società in cui i lavoratori decidano di quanto si produce e come, di una società che dia accesso alla cultura all’insieme dei lavoratori, che riprenda in mano i mezzi di produzione, che affronti la questione del clima a partire da una visione collettiva. Questa questione è più che mai d’attualità.

So che non sembrerà molto sexy, ma non intendo rigettare in blocco tutto quanto si è fatto in nome del comunismo. Noi ci inseriamo nella tradizione comunista in Belgio, di tutte le persone che hanno portato avanti la battaglia per una società diversa. Come per esempio Julien Lahaut[3], presidente del Partito comunista belga del dopoguerra, che ha lottato con i lavoratori nel bacino della siderurgia per i diritti sociali, che ha partecipato alla Resistenza contro l’occupante tedesco ed è stato assassinato per le sue idee politiche nel 1950 perché avrebbe gridato: «Viva la Repubblica!».

Sì, noi ci riconosciamo nell’azione di tutti i militanti comunisti che hanno dato la vita nella Resistenza all’occupazione nazista, mentre molti rappresentanti politici tradizionali scapparono o addirittura collaborarono con l’occupante. Sì, il PTB s’ispira all’azione determinante dei comunisti belgi nello scatenare il grande sciopero del 1960-61 in Belgio. Come anche Che Guevara, che ha osato rimettere in discussione la dominazione delle potenze imperialiste a Cuba, in Bolivia, in Africa, e che ha dato la vita per costruire un mondo nuovo, resta un riferimento.

Ma bisogna ammettere che le esperienze comuniste non sono state un lungo fiume tranquillo.

Si sono avute gravi sconfitte nel nome del comunismo. La concentrazione del potere, gravi mancanze nella democrazia e nella partecipazione del popolo, il burocratismo e la scarsa efficienza nelle applicazioni tecnologiche in materia economica. Si tratta di grosse sconfitte e bisogna trarne delle lezioni. Ma noi non vogliamo adeguarci alla visione in bianco e nero dell’analisi della storia – una visione manichea che viene d’altra parte soprattutto dagli Stati Uniti, in cui tutto è analizzato secondo un prisma: il bene da un lato, il male dall’altro. La realtà è molto più complessa. Basta d’altra parte vedere l’influenza che aveva l’esistenza di tutti quei paesi sui rapporti di forza dei lavoratori in Europa. Il «terrore rosso» ha forzato il padronato a delle grandi concessioni nei nostri paesi. Il nostro stato sociale non lo avremmo avuto, senza l’influenza dei paesi socialisti. Quante volte ho sentito i miei amici sindacalisti dirmi: «Sai Raoul, quando aveva un altro sistema davanti, il padronato non osava essere così arrogante». Altro esempio: il sistema scolastico finlandese – un corso politecnico comune fino a 16 anni -, che è riconosciuto come il più egualitario e sviluppato d’Europa, è direttamente ispirato a un modello venuto dai paesi dell’Est. O ancora: la condizione della donna. Oggi a Cuba il 65% dei quadri tecnici e scientifici sono donne. È anche questo, la storia del movimento comunista. Quindi no, anche se so di andare controcorrente, io non rigetto tutto quello che è avvenuto in nome del comunismo. Ma è evidente che noi non vogliamo assolutamente fare un copia-incolla in Belgio di quel che è successo nei paesi dell’Est, in URSS o in Cina.

All’indomani delle elezioni del 2012, il ministro socialista Jean-Claude Marcourt ha definito il PTB come un «pericolo per la democrazia». Il PTB è un partito minaccioso?

Il discorso di Marcourt m’indigna davvero. Se si comporta in questo modo, è soprattutto per evitare il dibattito di fondo con il PTB sulla politica del suo stesso partito, cercando di squalificare il PTB nel dibattito democratico, di escluderlo. Fortunatamente non tutti nel PS sono dello stesso avviso. Penso a Philippe Moureau, che vede invece nei punteggi del PTB una ragione di rimettere in discussione le politiche del PS.

Evidentemente il PTB non è un pericolo per la democrazia! Al contrario, l’emergere del PTB dà una boccata d’ossigeno in un dibattito politico spesso bloccato. È anche il riscontro che sento nei commenti: quando partecipiamo ai dibattiti televisivi, noi vi portiamo una contraddizione di fondo. Forse è questo che disturba Marcourt e sodali, che per troppo tempo sono stati abituati a discutere a porte chiuse. E poi noi vogliamo una democratizzazione della nostra società. Bisogna vedere il lavoro che fanno i nostri avvocati su questioni come quella dei rifugiati, su cui il Belgio è stato più volte richiamato dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. I nostri avvocati si battono anche contro l’intrusione sempre più frequente dei giudici nei conflitti sociali. Nei comuni avanziamo numerose proposte relative ai diritti democratici, come il posizionamento di spazi di affissione per le associazioni nei quartieri, la trasmissione in diretta dei consigli comunali via internet o televisioni locali, o ancora la non applicazione delle sanzioni amministrative comunali a minori di meno di quattordici anni d’età. E, in queste battaglie per la democrazia, incontriamo rappresentanti dei partiti tradizionali che vi si oppongono…

Vi siete anche molto modernizzati in materia di comunicazione.

Personalmente, piuttosto che parlare di «comunicazione» preferisco parlare di pedagogia popolare. Si tratta di un aspetto che abbiamo a lungo sottovalutato. Prima i nostri manifesti erano quasi dei volantini. Oggi, mentre gli altri partiti utilizzano i loro mezzi per vendere misure antisociali, noi utilizziamo i nostri per portare idee di sinistra, suscitare riflessione. Il PTB vuole portare idee politiche tra la popolazione: noi cerchiamo davvero, attraverso una comunicazione ludica, moderna e colorata, di promuovere idee controcorrente, idee di resistenza. Da noi la prima fonte d’ispirazione in questo campo non sono le agenzie di comunicazione professionali, ma soprattutto i nostri iscritti che ci forniscono le idee migliori. Per esempio, lo slogan della campagna elettorale 2012 a Liegi, «Désolé Willy, cette fois-ci on vote à gauche» (Ci dispiace Willy, questa volta votiamo a sinistra), indirizzato a Willy Demeyer, il borgomastro socialista. Questo slogan ci è stato ispirato da alcuni giovani che, alla festa del Primo Maggio, incontrando dei rappresentanti socialisti si divertivano ad apostrofarli con un: «Mi dispiace, ma questa volta voto a sinistra».

Il naso rosso sui nostri manifesti del 2009 era ispirato da una sorta di tradizione di resistenza, che esiste ormai da almeno vent’anni in Belgio, in relazione al fatto che i politici cerchino attraverso i loro manifesti di farsi eleggere per la loro faccia. E alla somiglianze tra il dibattito politico e un circo. Il naso rosso non l’ha inventato il PTB, ma questo umorismo popolare, questa resistenza della gente.

Non c’è in ciò una svolta che si potrebbe definire populista?

Noi non siamo populisti, ma popolari! La sfumatura è importante. L’accusa di populismo è spesso quella dell’élite per screditare qualunque alternativa al proprio dominio. Ora, esiste in Belgio un’élite? Indiscutibilmente. Di certo esiste un piccolo gruppo di persone che decidono dell’insieme dell’evoluzione economica e politica del nostro paese. E i componenti di questo piccolo gruppo condividono tutti, come per caso, lo stesso profilo sociologico, ossia hanno entrate finanziarie alquanto confortevoli. Parlo degli Direttori Generali di questo mondo che ne tirano sempre più le fila. E poi dei politici. Conosciamo i legami tra Didier Reynders (MR – Mouvement Réformateur, partito francofono centrodestra, N.d.R.) e Koen Geens (CD&V – Christen-Democratisch en Vlaams, partito fiammingo di centrodestra, N.d.R.), rispettivamente vecchio e nuovo ministro delle finanze, con il mondo delle banche. Anche in Parlamento si osserva questa evoluzione: esso è essenzialmente composto da elementi provenienti dalle libere professioni e dal padronato. Non c’è che una sola operaia in tutto l’emiciclo parlamentare. Questa élite s’incontra negli stessi circoli sociali. Ma il problema è soprattutto che esiste un legame tra l’agiatezza materiale e la facilità con la quale l’élite decide di votare misure antisociali. Mi piacerebbe vedere se i parlamentari si affannerebbero a votare le misure di soppressione del prepensionamento qualora dovessero lavorare in catena di montaggio o nel settore dell’assistenza alle persone… Come d’altra parte esiste un legame evidente tra il fatto che nessun deputato sia mai stato disoccupato e la facilità con cui votano delle misure contro i disoccupati.

Esiste dunque senza dubbio un’élite nel paese e sì, il PTB denuncia quell’élite. La realtà è che l’élite si adopera a fare di tutto per impedire la partecipazione dei lavoratori. Non si fa nessuno sforzo per coinvolgere la gente nella politica. Si utilizza un vocabolario incomprensibile perché la gente non ci capisca nulla. Si comunica tra politicanti. Riassumendo, il concetto è: «Votate per noi e lasciateci fare». Noi dobbiamo restituire alla gente il gusto della politica.

Questa è una realtà: nel PTB riavviciniamo la gente alla politica, e spesso si tratta di persone di estrazione popolare che se ne sono distaccate da molto tempo. Non ci presentiamo con soluzioni sempliciste, ma con ragionamenti a volte difficili da spiegare e che quindi spieghiamo il più concretamente possibile. Ricordo un’assemblea popolare che avevamo organizzato in un quartiere di Liegi con più di centocinquanta persone per discutere della chiusura di un ufficio postale. Partendo da quel fatto concreto, abbiamo spiegato la filosofia stessa di quelli che sono i nostri servizi pubblici. C’erano persone che partecipavano per la prima volta a una riunione «politica». Quante volte, quella sera, ho sentito dire: «Ma io di politica non ci capisco niente». Quando la stessa signora mi aveva appena spiegato dalla A alla Z che era a causa del contratto di gestione firmato tra lo Stato federale e la Posta che il nostro ufficio avrebbe dovuto chiudere. Le ho risposto che lei era un po’ come il monsieur Jourdain della commedia di Molière, che stava facendo politica senza saperlo… Molti quella sera hanno capito che se non si occupano di politica, la politica in ogni caso si occupa di loro. È questo il nostro modo di vedere la democrazia come mezzo perché le persone riprendano in mano la loro sorte.

I nasi rossi del 2009 erano uno sberleffo corrispondente al periodo: la gente era stufa dei negoziati interminabili[4]. Noi siamo partiti da quel sentimento di disgusto non per lasciarlo dov’era, ma appunto per proporre un’alternativa politica. È stato in quella campagna che abbiamo cominciato a diffondere tra il popolo alcune delle nostre proposte cardine, come la tassa sui milionari, l’IVA dal 21 al 6% su gas e elettricità, la reintroduzione di un sistema bancario pubblico… È chiaro che il PTB fornisce materiale, informazione alla popolazione per farle recuperare il gusto della politica.

Per te l’umorismo è un’arma di seduzione di massa?

Per me personalmente, l’umorismo è sempre stato importante. Sono davvero un figlio della generazione di Coluche[5]. D’altra parte, mi addormentavo spesso ascoltando i suoi sketch registrati su delle cassette. Quell’umorismo corrosivo ma anche di resistenza dei più deboli contro i più forti a mio parere unisce, più che dividere. È pur vero che esiste anche un umorismo maligno che serve a dividere le persone – tutto dipende dall’utilizzo che se ne fa. Io utilizzo molto l’umorismo nelle conferenze, nei dibattiti pubblici e politici. Prima il PTB era un po’ il partito dei punti esclamativi e oggi siamo diventati più quello della buona formula umoristica.

Prima i manifesti-volantini del PTB erano composti di testo. Ora vi si trovano dei volti e tu, Raoul Hedebouw, sei molto presente nei media. Come reagisci a questa personalizzazione?

Per noi l’importante è che si sappia che, dietro una persona più visibile, c’è un collettivo molto forte e presente che agisce. Non sono gli individui che fanno la storia, ma la lotta di classe, il movimento dei lavoratori, gli interessi economici. L’individuo non è che un catalizzatore. Per i dirigenti di sinistra è basilare tenerlo bene a mente e restare al servizio del collettivo. Anche l’umiltà è molto importante. Ciascuno non è che un elemento di un ingranaggio collettivo che deve aiutarci a cambiare la società. D’altra parte è questo fondamentale spirito di squadra che mi piace nel PTB.

Una manifestazione del vostro rinnovamento è anche il vostro centro studi, che opera un lavoro importante e rigoroso. Le sue informazioni sono state spesso riprese dai media.

Ho imparato a conoscerlo meglio una mattina molto fredda del gennaio 2010, a Jupille, dove eravamo con alcuni compagni in visita di solidarietà al picchetto degli scioperanti della fabbrica InBev. Fortunatamente il fuoco nei bidoni ci scaldava un po’. Improvvisamente il mio cercapersone suona. Era Marco Van Hees, il nostro specialista della fiscalità. Mi chiamava per farmi sapere che la filiale finanziaria di Interbrew non pagava che…il 2,5% di tasse. La rivelazione ha dato ai lavoratori il coraggio di denunciare la collusione tra il mondo politico e quello finanziario nella soppressione di quattrocento posti di lavoro reclamata dal padronato in quel momento.

Altro esempio: quando i nostri medici conducono uno studio che dimostra come il 75% dei pazienti dei nostri ambulatori, della fascia d’età tra i cinquantacinque e i sessantacinque anni, soffrono di malattie croniche, si tratta di un argomento di peso nella battaglia per il diritto al prepensionamento.

La specificità del nostro centro studi è dunque di essere al servizio della lotta. Il centro studi non è in sé una particolarità del PTB – anche gli altri partiti ne hanno. Ma quel che vi è di speciale a livello metodologico, è che esso osa uscire dai sentieri battuti. D’altronde si tratta di un servizio che conta su decine di collaboratori volontari, che apportano ciascuno degli elementi a partire dalla loro realtà e specificità. Nel PTB non abbiamo i finanziamenti che possiedono i centri studi degli altri partiti, eppure produciamo risultati che sono almeno altrettanto validi, se non migliori dei loro, grazie alla formidabile ricchezza di collaboratori sul terreno e di studenti. La strutturazione di tutte queste energie da parte del direttore del nostro centro studi, David Pestieau, dà i suoi frutti. Continueremo così.

In Belgio la «partitocrazia» è davvero un problema?

Non penso che il problema sia l’esistenza dei partiti in quanto tali, ma piuttosto il modo in cui i partiti tradizionali sono diretti. È soprattutto al vertice di quei partiti che si concentra il vero potere. Quando vediamo che il Parlamento diviene sempre più una camera che si contenta di avallare le decisioni, non possiamo che dolercene. Solo il 5% delle leggi oggi provengono dal Parlamento. Il resto promana dai gabinetti ministeriali, dal governo. È un’evoluzione pericolosa. Lo si vede anche a livello europeo.

Ciò fa in modo che il reale coinvolgimento dei membri dei partiti tradizionali nella decisione degli orientamenti del loro partito sia quasi nullo. Ma un partito può funzionare diversamente. Per esempio, da noi ci sono migliaia di iscritti che si riuniscono una volta al mese nel loro gruppo di base. Noi crediamo in una democrazia militante, e posso assicurare che nel PTB il dibattito interno è serrato! È dal confronto di idee, da queste scintille che vengono appunto le proposte concrete, le evoluzioni nei nostri orientamenti, nella scelta delle nostre priorità politiche. Abbiamo una democrazia molto attiva, con l’elezione dal nostro Consiglio nazionale da parte dei delegati al Congresso nazionale, o dei consigli provinciali da parte dei congressi provinciali. Questa forma di democrazia non esiste più, in parte o del tutto, nei partiti tradizionali. Quando noi organizziamo delle assemblee popolari nei quartieri, subito veniamo tacciati di populismo dagli altri.

In realtà, i partiti tradizionali hanno paura di questa democrazia. Io ne sono felice. La democrazia diretta si esprime già in molte associazioni, d’altra parte, e bisogna appoggiarle. Penso in particolare ai sindacati, nei quali centinaia di migliaia di delegati sono eletti direttamente. Si tratta di altrettanti processi democratici essenziali per ravvivare la nostra democrazia resa molto passiva dai partiti tradizionali. La nostra concezione della democrazia non è solo colorare di rosso una casella su una scheda elettorale una volta ogni quattro anni.

Ma in definitiva, anche se si ha della simpatia per tutto quel che proponete, la vostra visione non è un po’ utopistica?

Faccio notare che venivano tacciati di utopismo anche i pionieri del movimento operaio che un tempo hanno condotto la battaglia per mettere fine al lavoro dei bambini nelle miniere. John Cockerill, che è stato uno dei primi padroni della siderurgia nella regione di Liegi, definì «irresponsabili» e utopisti i sindacalisti della sua epoca, sostenendo che se si fosse dato loro ascolto, tutta l’economia belga sarebbe crollata. Per fortuna quegli utopisti hanno continuato a battersi per le loro rivendicazioni. È di quella tradizione che fa parte il PTB. Quando all’inizio del secolo il movimento operaio ha avanzato l’idea di uno stato sociale, ossia di mutualizzare una parte del nostro salario per proteggerci dagli imprevisti della vita, per la salute, la pensione o la disoccupazione, è stato tacciato di utopismo. Se ciò significa essere utopisti allora sì, il PTB è utopista. Ma in questo caso, ricordo che non c’è stata nessuna grande realizzazione che non sia stata dapprima un’utopia. E poi, il realismo degli uni non è quello degli altri. Il realismo dei partiti tradizionali, che consiste nel far pagare la crisi ai lavoratori, non è il mio realismo. Quello che consiste nel fare sgobbare sempre più infermiere per dodici ore di fila, nell’affermare che non si possa far niente contro le banche perché dipendiamo da loro per rilanciare l’economia, non è il mio realismo. Noi produciamo molta ricchezza, e quella ricchezza deve ritornarci. Non trovo realista che, in una società che non è mai stata tanto equipaggiata per accedere al benessere, il 27% della nostra popolazione soffra di turbe psicologiche. Il realismo di noi del PTB è quello dei lavoratori, non quello degli azionisti.

Ad ascoltarti susciti entusiasmo. Allora perché il PTB non riceve più voti, in questo momento?

Se fosse sufficiente la miseria per rafforzare la sinistra e le idee di sinistra, l’Africa sarebbe composta da molto tempo da repubbliche socialiste. Non è così semplice. In tempo di crisi economica e politica, c’è sempre una battaglia tra le forze politiche dominanti che, per preservare il loro potere, indicheranno altri responsabili, quali gli immigrati, i disoccupati, i vicini… E la sinistra di governo capitola spesso senza combattere. Contro costoro vi è la sinistra emergente, che indica altri responsabili: i banchieri, gli speculatori, i milionari.

Ma questa battaglia politica non è equilibrata, perché l’establishment ha tutto l’interesse a diffondere facili idee e amalgama, ed ha a disposizione mezzi enormi. Ogni giorno, per otto o dieci ore su ventiquattro, l’ideologia inculcata ai lavoratori nelle nostre imprese incoraggia la concorrenza e il ciascuno per sé. Ecco perché, davanti a una simile potenza, la sinistra non può contare che sulla forza del numero che deve riuscire a raggruppare, ed è controcorrente che essa costruisce le sue alternative. Oggi vediamo che le sue idee cominciano ad avanzare in Europa, e ancora di più in America latina.

Appunto, in America latina soffia un vento nuovo da quindici anni, con le esperienze in Venezuela, in Bolivia, in Ecuador…

E fa bene alla sinistra, il vento caldo che ci viene dai paesi dell’America latina, dominati dal neoliberismo negli anni ’80 e che hanno davvero costituito un terreno di sperimentazione di tutte le politiche neoliberiste iniziate da Reagan e Thatcher, con le conseguenze sociali disastrose che si sono viste.

Una sinistra che osa sta risorgendo laggiù. La Bolivia, ad esempio, non ha paura di nazionalizzare il gas, la sua materia prima principale, ma anche la siderurgia. Il Venezuela ha deciso che le sue ricchezze nazionali (essenzialmente gli utili petroliferi) siano restituite alla popolazione attraverso programmi sociali. Bisogna ricordare che prima della presa del potere di Hugo Chávez nel 1998, il paese aveva un tasso di malnutrizione del 15%. Oggi la FAO, l’organizzazione mondiale per l’alimentazione dell’ONU, conferma che la malnutrizione vi è stata sradicata. L’analfabetismo, che Cuba era il solo paese dell’America latina ad aver sconfitto sin dal 1961, è stato anch’esso completamente eliminato in Venezuela. Prendiamo le cifre dell’ONU: la disoccupazione, la povertà sono diminuite della metà durante il mandato presidenziale di Hugo Chávez. Il punto comune di tutte queste esperienze in America latina è che esse hanno osato rimettere in discussione il paradigma liberista di cui la gestione di quei paesi era prigioniera da trent’anni. Ciò dimostra che è possibile invertire il corso delle cose.

***

[1] A poco più di un anno dalla pubblicazione del presente testo, gli iscritti al PTB sono cresciuti a ottomilacinquecento (N.d.R.).

[2] Si riferisce al rifiuto del PTB di scindersi in sezione vallona e fiamminga, come hanno fatto tutti i principali partiti del Belgio per assecondare le crescenti spinte separatiste (N.d.R.).

[3] L’assassinio dell’amatissmo presidente di un PCB allora all’apice della sua forza, avvenuto il 18 agosto 1950, maturò, nel contesto della Guerra Fredda, in un clima non dissimile da quello in cui si produsse il fallito attentato contro Palmiro Togliatti del 14 luglio 1948. Su di esso grava il sospetto di un coinvolgimento della monarchia belga (N.d.R.).

[4] Si riferisce allo stallo istituzionale che ha lasciato a lungo il Belgio privo di governo (N.d.R.).

[5] Pseudonimo di Michel Colucci (1944-1986), popolare comico francese di origini italiane (N.d.R.).

Lascia un commento