Stati Uniti, assalto al Campidoglio: chi ci guadagna?

Le immagini dell’assalto alla sede del Congresso degli Stati Uniti a Washington, avvenuto lo scorso 6 gennaio in occasione della seduta congiunta delle Camere per la ratifica dell’elezione di Joe Biden alla Presidenza, hanno sorpreso il mondo intero. Come sia stata possibile l’invasione di una sede istituzionale normalmente sorvegliatissima e presidiatissima, nel contesto di una mobilitazione trumpiana non certo oceanica né irresistibile, è un quesito ineludibile.

Che siano state ignorate, da parte delle forze dell’ordine, le più elementari norme di sicurezza, è un fatto assodato. D’altro canto, le immagini degli agenti della US Capitol Police, corpo di sicurezza federale posto sotto il controllo dell’amministrazione del Congresso, che rimuovono le transenne e consentono ai manifestanti di riversarsi all’interno della sede istituzionale, non lasciano spazio a dubbi: qualcuno ha preso la decisione di farli passare e ha impartito istruzioni in merito.

Che ciò possa rimandare a un articolato disegno golpista dell’estrema destra, ci pare un’ipotesi poco sostenibile. Certamente Trump ha aizzato la piazza; certamente il discorso incendiario da lui rivolto poco prima dei fatti ai suoi sostenitori ha contribuito in modo decisivo a creare le premesse per gli eventi successivi. La responsabilità del Presidente per il bilancio drammatico della giornata, con il sangue di cinque persone versato sul suolo del parlamento, è incancellabile.

Appare tuttavia scarsamente credibile il teorema secondo cui il disegno di Trump potesse essere quello di ritardare la ratifica dell’elezione di Biden da parte del Congresso per poi tentare di farsi rieleggere dai rappresentanti degli Stati con un colpo di mano istituzionale. E questo per una ragione molto semplice: perché di fronte a un attacco alle istituzioni qualunque potere, in qualunque parte del mondo, reagisce immancabilmente con passi volti a riaffermarne la solidità. Nel caso specifico, all’interruzione delle procedure di ratifica dovuto all’invasione dei manifestanti ha fatto seguito un’immediata ripresa dei lavori una volta sgombrato il Campidoglio: Biden è stato dunque ratificato da un Congresso la cui sede era simbolicamente presidiata da militari in assetto di guerra, in un clima generale di allarme nazionale.

Per interpretare la situazione, ci pare dunque opportuno porre una domanda: cui prodest? A chi giova quanto è accaduto?

La prima risposta, inconfutabile a qualche giorno di distanza dagli eventi, è: evidentemente non a Trump. I fatti di Washington hanno accelerato il processo di smarcamento dell’establishment del Partito Repubblicano dalla sua ombra. Se è vero che, nelle ore dell’assalto, l’articolata galassia dell’estremismo di destra che fa riferimento al tycoon si è scoperta compatta e galvanizzata dagli eventi, il successivo appello alla “pace” lanciato dal Presidente e le garanzie da questi fornite circa una “transizione ordinata” verso l’insediamento di Biden, hanno gettato quella stessa area politica nella confusione e nello sconcerto. L’unanime esecrazione cui Trump è andato incontro sul piano nazionale e internazionale, ne segna una vistosa e rapida emarginazione sulla scena politica statunitense che non è ancora escluso possa perfezionarsi con una sua rimozione anticipata dall’incarico tramite impeachment: ciò costituirebbe, tra l’altro, una pietra tombale rispetto a qualsiasi ipotesi di rielezione.

Il grande vincitore è sicuramente Joe Biden: la sua amministrazione, frutto della vittoria non di larga misura di una candidatura prodotta da primarie viziate, può ora prendere le mosse in un clima di unità nazionale contro l’eversione che, tra le altre cose, autorizza ogni tipo di abboccamento con la minoranza repubblicana del Congresso o con settori di essa. Il tutto a scapito del peso e dell’influenza delle forze parlamentari di sinistra e delle rivendicazioni sociali di cui esse sono espressione, rispetto alle quali il Presidente eletto non si è mostrato incline a concessioni sostanziali.

Anche il vice di Trump, Mike Pence, esce rafforzato dai fatti di mercoledì. Uomo dell’establishment repubblicano, Pence si è erto a garante della legalità costituzionale, spalancando le porte al clima da unità nazionale e diventandone di fatto un protagonista.

A essere già ora sotto attacco e dunque a perderci, sono i movimenti popolari e le loro rivendicazioni, vittime di una campagna di delegittimazione in nome del teorema degli opposti estremismi che, iniziata all’indomani della vittoria di Biden lo scorso 3 novembre, è destinata ad allargarsi e approfondirsi nazionalmente e internazionalmente.

Il contesto in cui tutto ciò avviene è quello dell’accelerazione del calo tendenziale del potere statunitense nel mondo (si pensi alla conclusione delle trattative per l’accordo sugli investimenti tra UE e Cina, avversato con pari veemenza sia da Trump che da Biden) e della crisi organica che la società americana sperimenta al suo interno, da ultimo aggravata dalla pandemia e dalla sua catastrofica gestione da parte dell’amministrazione Trump.

Il clima da strategia della tensione generato dall’assalto al Campidoglio ricompatta intorno alla Casa Bianca un ampio consenso interno, una richiesta di ordine che parte da quella stessa classe media in via d’impoverimento, da quella classe operaia alle corde, la cui agitazione è uno dei fattori determinanti dell’evoluzione in senso conflittuale che il quadro politico ha vissuto sin dai tempi dell’amministrazione Obama. Il nuovo governo potrà inoltre contare su un capitale di credito e aspettativa internazionale, in particolare in Europa, di grande utilità per ogni progetto di rilancio dell’egemonia statunitense.

Dobbiamo dunque aspettarci un’amministrazione Biden forte, degli Stati Uniti più risoluti nel ristabilire la presa egemonica delle élites dominanti all’interno e nell’usare ogni strumento, diretto o indiretto, per riaffermare il proprio primato internazionale, in particolare rispetto all’Unione Europea e alla Cina.

La solidarietà tra tutte le forze che lottano per la pace, la democrazia e il socialismo, il sistematico e costante scambio di analisi e informazioni tra le sinistre delle due sponde dell’Atlantico, l’impegno per la costruzione di un nuovo, inclusivo, agile e vitale internazionalismo, s’impongono più che mai come urgenze decisive per far fronte ai pericoli dell’immediato futuro.

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