Intervista a Dario Salvetti, del collettivo di fabbrica GKN, per il quotidiano tedesco Junge Welt

Nell’ambito della collaborazione con il quotidiano della sinistra tedesca Junge Welt, il nostro compagno Alessio Arena ha intervistato Dario Salvetti, delegato sindacale FIOM CGIL ed esponente del collettivo di fabbrica GKN di Campi Bisenzio (FI), a proposito della vertenza in corso contro il tentativo del fondo finanziario Melrose di liquidare lo stabilimento.

L’intervista è stata pubblicata su Junge Welt di giovedì 28 ottobre. Ne proponiamo a seguire la traduzione in italiano.

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Puoi riassumerci i passaggi più importanti della vostra lotta?

Il 9 luglio scorso la proprietà ci ha tenuto fuori dalla fabbrica con lo stratagemma del riconoscimento di un giorno di ferie collettivo per poi, quel giorno stesso, annunciarci via mail la chiusura. Noi abbiamo trovato il modo di rientrare in fabbrica e di scacciare i vigilanti che ne avevano preso il controllo. Da quel momento siamo in assemblea permanente. Era stata aperta una procedura di licenziamento: siamo riusciti a bloccarla sia con la lotta (abbiamo fatto uno sciopero provinciale e tre manifestazioni, di cui una nazionale con oltre 30.000 partecipanti) che con un ricorso giudiziario.

La vostra lotta ha dato impulso a una forte mobilitazione che ha posto il problema dello strapotere dell’economia finanziaria rispetto a quella reale e produttiva. Come ci siete riusciti?

Ci sono varie spiegazioni. La prima è che siamo una fabbrica sindacalmente consapevole e organizzata, in lotta ormai da tre anni contro il fondo finanziario Melrose e in generale contro lo strapotere delle multinazionali. La seconda è che siamo stati uno dei primi casi di licenziamenti collettivi dopo che il governo ha deciso lo sblocco dei licenziamenti decretato in seguito alla crisi pandemica. La terza è che il tipo di lotta che abbiamo sviluppato ha impressionato le persone: siamo riusciti a spiegare al territorio che un fondo finanziario che ci aveva comprati apposta per chiudere, produrre un rialzo borsistico e speculare, stava distruggendo un patrimonio collettivo.

Il vostro modello organizzativo e la vostra relazione con il territorio hanno dei tratti di specificità. Ce li puoi riassumere?

Noi non abbiamo mai negato l’importanza dell’organizzazione sindacale e partecipiamo alla sua vita interna. Sappiamo però che vi si sono formate delle incrostazioni burocratiche; quindi, ci siamo dati anche un’organizzazione di base fluida, cui ogni lavoratore partecipa condividendo il principio dell’unità nella lotta: il collettivo di fabbrica. In più, abbiamo istituito dei delegati di reparto che affiancano la rappresentanza sindacale eletta. Questa ramificazione ci ha costretti a un continuo esercizio di democrazia partecipativa, generando il protagonismo che ci oggi ci permette di lottare. Inoltre, siamo fabbrica “multirelazionale”: abbiamo sempre portato solidarietà alle altre vertenze di lavoro, siamo stati presenti nelle lotte territoriali a difesa dell’ambiente e abbiamo sviluppato un forte legame con l’associazionismo antifascista. Aggiungo che essere riusciti a tutelare il nostro tempo libero ha permesso a ciascuno di noi di partecipare alla vita della comunità. Per questo, alla chiusura di GKN tutto un territorio ha capito che occorreva insorgere a difesa di un luogo di produzione e aggregazione.

Un passo fortemente politico della vostra lotta è stato formulare una proposta di legge sulle delocalizzazioni. Quali ne sono i contenuti? Perché avete deciso questo passo?

Quando il Ministero del Lavoro, reagendo alle nostre sollecitazioni, ha prodotto un progetto di legge del tutto insufficiente, è bastato che l’associazione degli industriali si lamentasse un po’ perché esso sparisse dai radar. Allora ci siamo rivolti a dei giuslavoristi progressisti e abbiamo formulato una nostra proposta. L’abbiamo depositata in Parlamento per togliere alle forze politiche qualunque pretesto per ignorarla. Essa dà il potere allo Stato di esigere dalla multinazionale che chiuda uno stabilimento non in crisi la formulazione di un piano di continuità occupazionale. Se l’azienda non ottempera, lo Stato può dichiarare inefficaci i licenziamenti, cosa oggi impossibile, oppure può costringere l’azienda alla vendita e rilevare lo stabilimento. Si separa quindi la libertà dell’azienda di abbandonare il territorio dalla possibilità del territorio di conservare l’insediamento produttivo. Detto questo, noi non ci illudiamo che la nostra salvezza verrà dalla legge: essa viene dalla mobilitazione e quindi da mesi chiediamo lo sciopero generale.

Il vostro stabilimento è integrato nelle filiere produttive europee dell’industria dell’auto. Quali obiettivi ritieni che dovrebbe porsi una lotta condivisa dei lavoratori nell’ambito del mercato comune europeo?

A livello europeo chiediamo il salario minimo legale intercategoriale per frenare delocalizzazioni e dumping salariale. Nel settore specifico dell’automotive si dice che la transizione all’auto elettrica produrrà 300.000 posti di lavoro in meno. Ci pare che con i lavoratori del nostro settore si voglia fare quello che la Thatcher fece con i minatori britannici: come noto, l’inquinamento in quel caso è rimasto, ma i diritti sono spariti. Noi rifiutiamo la contrapposizione tra lotta fondamentale per la giustizia climatica e conservazione dei posti di lavoro. Se è vero che è in corso un cambiamento tecnologico che fa venir meno posti di lavoro, si tratta di un fatto sociale e politico che richiede l’intervento pubblico con piani per la riconversione del settore. Una bomba sociale del genere non può essere lasciata né in mano agli sciacalli dei fondi finanziari né alle case automobilistiche.

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