A 82 giorni dall’ingresso dell’esercito della Federazione Russa in territorio ucraino, e mentre la guerra col suo carico di morte e distruzione si fa sempre più insopportabile, una nuova fase del conflitto sembra ormai stare maturando. Una fase, questa, caratterizzata dalla crescente contrapposizione di interessi tra gli Stati Uniti e il partito tedesco, cioè il blocco economico e politico che agisce la rivoluzione passiva europea.

Abbiamo già avuto modo di ricostruire le ragioni dell’escalation. Dal 2014, in palese violazione degli accordi di Minsk, il governo ucraino conduce una campagna repressiva e criminale contro le popolazioni russofone che vivono entro i suoi confini. Questa violenza è stata il corollario di un progressivo avvicinamento agli Stati Uniti (che hanno generosamente finanziato l’acquisto di armi da parte di Kiev) fino a culminare nella richiesta di adesione alla NATO.
La vicenda ucraina è stata l’ultimo tassello di un più generale accerchiamento NATO nei confronti della Russia. A chi ritiene che la Russia non avrebbe ancora vinto sul campo solo per propria volontà e non per circostanze esterne, bisognerebbe far notare che la decisione di attaccare è stata caratterizzata da un considerevole livello di rischio, se non di totale incertezza – come d’altronde l’andamento accidentato della campagna militare sembra suggerire. Al contrario, la Russia è un paese dall’economia fragilissima, governato da una classe politica profondamente corrotta che, con le spalle al muro, prova disperatamente ad aprirsi un varco per la sopravvivenza. Putin ha la grave responsabilità storica di aver violato l’integrità statale di un altro paese per far cessare un comportamento politico non allineato ai suoi interessi, odiosa pratica che era stata fino a ad oggi appannaggio dell’imperialismo occidentale. Il gesto di Putin, mentre legittima i metodi criminali dell’Occidente, reca un danno enorme a quei paesi che lottano per un futuro di emancipazione da dinamiche imperialiste.
È possibile fare un bilancio provvisorio di questa prima fase di conflitto? Il primo dato incontrovertibile è che gli Stati Uniti, seppur in declino, rappresentano ancora un attore predominante sul suolo mondiale, e soprattutto su quello europeo. Giocando d’anticipo (e poi nel giro di una manciata di giorni), gli USA hanno efficacemente ricompattato il mondo occidentale dietro la bandiera NATO, riesumando una retorica da guerra fredda e posticipando di parecchio qualsiasi reazione autonoma da parte dell’Europa. Dando prova di egemonia anche in campo economico, gli USA hanno altresì piegato il capitale occidentale ai loro interessi sul campo (come dimostra il massiccio e disciplinato disinvestimento in terra russa).
Allo stesso tempo, però, le modalità con le quali la volontà egemonica statunitense agisce rappresentano una prova del suo incalzante declino. Provocare e fomentare una guerra ai confini dell’Europa è una mossa spregiudicata e estrema. Sul medio periodo, non può che mettere a disagio la classe politica europea e provocare frizioni significative. A livello economico, l’attuale politica estera statunitense danneggia irreparabilmente l’enorme mercato con la Russia, costringendo a una maggiore dipendenza oltreoceano e acutizzando lo scontro interno con i paesi più legati alla Russia.
C’è di più. Senza una politica di contenimento, l’azione egemonica statunitense rischierebbe addirittura di mettere in discussione l’intero progetto imperialista europeo. Dopo due anni di pandemia, una guerra prolungata non solo può vanificare l’impatto delle risorse economiche già stanziate per il rilancio, ma dirottarne di future, con il risultato di rallentare il processo di integrazione ordoliberale, soprattutto per quanto riguarda i paesi più fragili. C’è un altro aspetto altrettanto importante, anche se più genuinamente politico: il protagonismo statunitense comprime lo spazio di manovra nelle modalità di integrazione verso est, negando all’Unione Europea la possibilità di controllo autonomo della ‘temperatura politica’ nel confronto-scontro con la Russia. Questo senza dimenticare che il ritorno al centro della scena della NATO rischia di vanificare gli sforzi europei per la costruzione di un esercito comune.
Ed ecco che la crescente importanza del contrasto politico tra le due sponde dell’Atlantico sembra essere il dato nuovo che ci spinge a parlare di una seconda fase del conflitto in arrivo. D’altronde, la Germania ha agito come un freno silenzioso dal primo giorno di crisi – cosa che è stata non a caso notata dalla stampa cinese. Ora, assorbito lo shock dello scoppio della guerra nell’opinione pubblica, il ‘partito tedesco’ (inteso come il rappresentante politico della rivoluzione passiva europea) serra i ranghi e reagisce. Le dichiarazioni di Macron vanno in questo senso, rinsaldando l’asse franco-tedesco. Anche nel nostro paese stiamo assistendo ad un riposizionamento di interi pezzi di capitale finanziario e economico- per il momento tramite le voci non proprio di secondo piano di Del Rio, de Benedetti, Cottarelli.
Naturalmente, segnalare una tendenza non vuol dire avere capacità preveggenti, ma solo identificare una contraddizione attorno alla quale probabilmente si svilupperanno gli eventi. Qua non si scrive infatti che il partito tedesco porrà immediatamente fine alla guerra, ma solo che gli interessi contrapposti tra USA e UE inizieranno a orientare con sempre più evidenza le sorti del conflitto. Nemmeno sappiamo se questa seconda fase avrà un effetto acceleratore delle dinamiche di integrazione europea (come lo è stata la pandemia), o prevarranno le dinamiche centrifughe alimentate dagli USA.
Alla sinistra di classe e a chiunque abbia a cuore la pace e la fratellanza tra popoli, rimane il compito di combattere contro l’imperialismo statunitense e europeo, lottare per ottenere la pace subito e il ritorno immediato al dialogo, denunciare come il prezzo umano e economico della guerra la paghino sempre e solo i popoli. Fronte Popolare è già in prima fila attraverso la sua campagna contro la guerra e il carovita.